PERCHE’ SONO VEGANO

Articolo del 25 marzo 2011

“Cosa certa e non da burla si è che l’esistenza è un male per tutte le parti che compongono l’universo… Non si comprende come dal male di tutti gli individui senza eccezioni, possa risultare il bene dell’universalità; come dalla riunione e dal complesso di molti mali e non d’altro, possa risultare un bene…
Non gli uomini solamente, ma il genere umano fu e sarà sempre infelice di necessità. Non il genere umano solamente ma tutti gli animali. Non gli animali soltanto ma tutti gli altri esseri al loro modo. Non gli individui, ma le specie, i generi, i regni, i globi, i sistemi, i mondi.”
Bologna, 22 aprile 1826
Giacomo Leopardi – Zibaldone – Newton Compton Editori 2007 – pag. 854

Adriano Mariani, studioso di Leopardi, dice nel suo Non Uccidere. Il cristianesimo alla prova della condizione animale. – Gandhi Edizioni: “O tutta la vita souffrante viene salvata, o tutto è privo di senso; come la pietà è indivisibile, così la salvezza a cui dà diritto la sofferenza. È questa la difficoltà più grande del pensiero teologico»
Io non posso dire delle implicanze teologiche e neppure filosofiche di tanto soffrire. Posso però dire che l’urlo di sofferenza che si leva da ogni dove è tanto greve ed assordante da avermi imposto, anche se forse in ciechi tentativi, la ricerca di una via capace di condurmi alla salvezza in questa vita e su questa terra.
E proprio a partire da questa mia egoistica necessità di sopravvivenza, ho scoperto dapprima che la mia salvezza non può essere indipendente dalla salvezza degli altri esseri umani e poi, che non può essere altro neppure rispetto alla salvezza della natura e dell’intero mondo che mi ospita.
Certo ho dovuto svincolarmi un poco dal qui ed ora in cui risiedo e sentirmi un po’ più uomo che individuo. Ho dovuto, mai dimenticando i limiti temporali che sono dati alla mia singola esistenza, saper andare oltre essa e ricordare i legami che mi avvinghiano alla storia passata per rintracciarvi e riconoscervi le radici profonde che fanno di me quello che sono. Insieme ho dovuto proiettarmi – la presenza dei miei figli me lo ha reso semplice – fra i viventi che saranno, in un futuro che per me e per loro sia degno. La mia è stata una scelta culturale penso profondamente in sintonia con l’essere noi appartenenti ad un’unica specie.
In quest’ottica le mie azioni, le mie pratiche di vita anche minute e quotidiane, sono tornate ad essere profondamente mie. Hanno acquisito senso e sono diventate potenti. Sono in relazione profonda con quello che ho deciso di essere e avranno conseguenze durature e significative sul mondo che verrà. Riportando l’idealità nel presente, hanno saputo unire politica ed etica. Il futuro che emergerà sarà quel che oggi voglio e non la sede di fantasiosi paradisi.
Che senso avrebbe arricchirmi di ogni bene, magari sottraendo con la forza ad altri il diritto a vivere, quando i miei stessi figli e proprio in ragione di quel mio comportamento, sarebbero costretti a sopravvivere in un mondo ostile o addirittura a morire? E che senso avrebbe mai desertificare l’intero pianeta, quando l’avidità crescente e l’assurda insaziabilità che gonfia le pance e obnubila i cervelli è destinata, dopo un breve momento di follia, a non trovare più materia per continuare a soddisfarsi? Che senso ha, oggi, una modalità del vivere che porta, fin dall’immediato domani, all’estinzione della vita?
In tanti ancora e purtroppo, non vedono relazione alcuna fra il consumo e gli sprechi di pochi individui e gli stenti e la fame e la disperazione dei molti, ma nessuno può essere tanto cieco da non vedere nel disastro di Fukushima lo scenario possibile di un futuro terribile.
In molti desideriamo e crediamo possibile un altro mondo. Ma cosa ci spinge a ricercare nuove modalità, ad esperire nuove vie?
Penso che ciò che ci motiva si è costituito in ognuno di noi, rendendoci quello che siamo, nella continua interazione con gli altri e con il mondo. Dalla disponibilità a recepire e a rendere poi quello che si è potuto e saputo.
Dice Vandana Shiva in Il bene comune della terra:

“La filosofia indiana definisce la soggettività in termini di so-hum: – Tu esisti, pertanto io sono –“
E’ la compassione che facendoci partecipi di ogni sofferenza ci consente di sentirci parte di un tutto. E’ il patire assieme che ci spinge a sognare e a desiderare e perciò a vivere. Che ci spinge, come direbbe Paul Goodman, a ricercare il nostro giusto modo di esserci. “Il rispetto della vita – aggiunge Vandana Shiva – si fonda su un sentimento di compassione e attenzione nei confronti dell’altro, sul riconoscimento dell’autonomia e della sovranità dell’altro e sulla consapevolezza che il nostro sostentamento, la pace e la felicità dipendono dalla rete di connessioni reciproche che ci unisce.” E ancora: “Conservare gli equilibri ecologici necessari per la sopravvivenza del nostro pianeta e difendere i diritti umani fondamentali come quello all’acqua, al cibo, alla salute, all’istruzione, al lavoro e a una esistenza dignitosa: questo è l’impegno di una visione democratica e comunitaria che riconosce l’importanza della vita e la rispetta in tutte le specie e in tutti i popoli.”

Il nostro modello di sviluppo non deve danneggiare nessuna forma di vita ma affinché ciò possa essere, ognuno di noi deve potersi sentire parte di quel tutto in cui una ragnatela fittissima di trame correla passato, presente e futuro; uomini, animali e vegetali; territori e globo; organico e inorganico.
Divengono quindi inaccettabili, e non in nome di una moralità astratta e lontana, gli strazi, gli orrori e le offese che quotidianamente propiniamo alla vita, umana o inumana che sia. Non c’è differenza nella sofferenza di un uomo o in quella di un animale. E neppure, per quanto paradossale possa apparire, in quella di un vegetale. La differenza non sta nel modo diverso di percepire la sofferenza. Che ne possiamo sapere noi di quanto soffre un cane o un elefante o un faggio o un fiore, quando per secoli e ancora oggi, senza alcuna vergogna, ci pensiamo diversi dai selvaggi che ci assediano? Ci pensiamo diversi gli uni dagli altri come se il censo, la cultura, il colore della pelle e persino il genere fossero ontologiche discriminanti. Che ne possiamo sapere noi che, su queste differenze del tutto inventate, abbiamo costruito scale diverse di sofferenza che hanno potuto generare genocidi mostruosi e dolori abissali?
La sofferenza è sempre sofferenza, nonostante l’indifferenza, il razzismo, la xenofobia e tutte le stupide ideologie antropocentriche che possiamo cucirci addosso.
Dice ancora Mariani:

“da un punto di vista etico-teologico la scelta vegetariana discende direttamente dall’allargamento della sfera della compassione e del rispetto a tutte le creature con capacità di soffrire, dato che Dio non può averle create per destinarle al dolore e alla distruzione.”

E’ vero. Ma è altrettanto vero, e alla mia sensibilità ancor più pregante, riconoscere che il mondo che noi abbiamo creato e riempito di sofferenza non può avere nessun futuro. Neppure per i pochi che sembrano possedere tutto.
Nel 2006, quando Peter Singer e Jim Mason scrissero Come mangiamo – Le conseguenze etiche delle nostre scelte alimentari, pubblicato in Italia dal Saggiatore, nei soli macelli statunitensi venivano macellati 10 miliardi di animali l’anno. Oggi qualcuno parla di 60 miliardi di capi all’anno in tutto il mondo. In pochi ricordano i pesci, a cui non si dà più neppure il tempo per riprodursi, e che sembrano essere lì, in mari, in laghi e in fiumi sempre più inquinati dai nostri scarti, solo per essere tutti divorati da noi nel più breve tempo possibile.
Al cospetto di cifre così elevate dovremmo chiederci come nascono e come vivono questi animali, in che condizioni sono mantenuti, che trattamenti subiscono, come sono trasportati da una parte all’altra del globo e infine, anche, come muoiono nei vari macelli disseminati in ogni luogo del pianeta.
Chi volesse rispondere a queste domande dovrebbe entrare in un mondo che ricorda da vicino Auschwitz e dovrebbe avere un coraggio enorme a leggersi le descrizioni minute, e possedere un’abnegazione immensa a vedersi le fotografie e i filmati reperibili in rete. Potrebbe poi domandarsi, costui, se tanta disperazione non penetri in qualche oscuro modo anche nelle carni degli uccisi per giungere poi nel corpo di chi mangia avido, e avvelenarlo. Si potrebbe addirittura sospettare esserci, racchiusa nelle carni degli animali e nelle viscere della Terra, una qualche sorta di odio o di incarognita esigenza di vendetta, capace di rodere e rovinare per sempre chi, nella sua grande follia, si è pensato invece il sommo artefice.
Io non ho cuore per percorre simili sentieri.
A me basta conoscere i luoghi in cui si ammassano tutte quelle bestie e sapere di cosa e di quanto si cibano. O, in un’ottica tanto cara ai fabbricanti di carne, quanto consumano e quanto producono quei viventi divenuti merci.
Paola Maugeri ha recentemente verificato in una sua personale esperienza, la possibilità di vivere ad impatto zero, anche se sarebbe meglio dire quasi.
In un suo articolo ci ricorda sinteticamente, a giustificazione della scelta vegetariana, che: “Per produrre un kg di carne si consumano circa 3.200 litri di acqua, 1,5 di petrolio e 12 mq di foresta oltre a 15 kg di cereali che potrebbero saziare almeno 50 persone a fronte delle 3/5 persone che si saziano con un kg di carne. Gli allevamenti intensivi sono deleteri per l’ambiente, rappresentano il 60% delle emissioni che causano l’effetto serra, 10 vacche in un anno producono tanto metano da far percorrere a un auto 10.000 km e nella foresta amazzonica l’88% dei terreni disboscati è stato adibito a pascolo, per non dire che il 70% della raccolta totale di cereali è impiegato come mangime per il bestiame e non a uso umano, infine sfruttando un ettaro dello stesso tipo di terreno si possono produrre 50 kg di carne oppure 8.000 kg di patate o 10.000 kg di pomodori.”
La verifica di questi dati, in alcuni casi errati per difetto – svela una realtà ancor più impressionante. E, come se non bastasse, al danno di uno spreco smisurato di terra e di acqua che di per sé è già causa di carestie e desertificazioni su l’intero globo, si aggiunge la beffa di un consumo di carne limitato essenzialmente a quel 15/18% di popolazione residente nei cosiddetti paesi ricchi.
Questi meccanismi produttivi, decisi da qualcuno in nome e per conto di tutti gli uomini, generano continue e apologetiche mistificazioni, la più grande delle quali, dopo quella che sostiene essere il sistema vigente l’unico possibile, è quella secondo cui il raggiungimento di una produzione bastante a sfamare l’intera umanità è ormai garantita dall’elevatissima produttività raggiunta.
A riprova si riportano i prezzi di molti alimenti a base di carne divenuti, negli ultimi anni sempre più bassi, tanto da essere in molte povere e degradate realtà, l’unico alimento disponibile.
Ci si dimentica, però, che questi vengono definiti cibo spazzatura. E che i conti che si portano a difesa di questa stramba teoria sono semplicemente falsi.
Vandana Shiva dice:

“Di solito la produttività si calcola considerando il risparmio di manodopera che deriva dall’impiego delle tecnologie e dei prodotti chimici. In questo caso però, le risorse che scarseggiano sono l’acqua e la terra, non la forza lavoro.” Chi paga il degrado? Chi l’inquinamento? Chi risponderà dell’uso ed abuso di risorse destinate ad esaurirsi? Come sarà possibile arginare i meccanismi in atto se persino la nozione di bene comune è andata persa? Se ormai è divenuta norma consumare di più e più in fretta di quanto nei suoi lunghissimi tempi la natura ha saputo fare? “Ogni volta che adottiamo un sistema di produzione o consumo che richiede più di quanto non generi – ci avvisa Vandana Shiva – abbiamo fatto ricorso alla violenza. Un consumo e una produzione non sostenibili costituiscono un sistema economico fondato sulla violenza.”

Il tragico è che si tratta di una violenza perpetrata su se stessi.
Mangiare rappresenta il gesto più incisivo per la salvaguardia dell’ambiente e delle sue risorse. Ha a che fare con il tipo di società, con i rapporti che costruiamo, con la democrazia e la giustizia. Smettere di mangiare carne è un passo importante nella giusta direzione.
Serve al mondo e quindi direttamente ed essenzialmente a noi stessi.
Ci insegna a riscoprire il gusto del cibo e sapori dimenticati.
Jonathan Safran Foer nel suo Se niente importa ci ricorda che:

“Gli americani [e noi con loro] scelgono di mangiare meno dello 0,25% del cibo commestibile conosciuto del pianeta”

Uscire dal giogo di questa monocultura alimentare ci riporterà persino il sorriso sui volti. Lo stesso sorriso e la stessa gioia di vivere che prendeva David Henry Thoreau nei boschi di Walden quando scriveva:

“Un contadino mi dice: – Non si può vivere solo a dieta vegetale, poiché essa non fornisce le sostanze per formare le ossa. – E pertanto egli dedica religiosamente parte della sua giornata a fornire il proprio organismo delle materie prime necessarie alla formazione delle ossa; e mentre parla, cammina dietro ai suoi buoi, che, con le ossa fatte da sostanze vegetali, si trascinano appresso lui e il suo pesante aratro, per quanti ostacoli abbiano davanti.”