UN LINGUAGGIO URTICANTE

Ho scritto Né carne, né pesce. E nemmeno latticini in un momento difficile della mia vita. Ne è risultato un testo riassuntivo del mio pensiero in cui, in maniera sintetica, analizzo le relazioni complesse che legano il cibo alla vita naturale e sociale dell’uomo.
Non ho molto spazio per farmi leggere e conoscere.
Mi sono quindi limitato a pubblicare il testo sul mio sito (www.giuseppelaino.it), a farmi un po’ di pubblicità diffondendo la notizia su facebook e inviando qualche mail ad amici.
Ringrazio tutti coloro che sono sempre pronti a diffondere i miei scritti e che mi hanno fatto pervenire critiche e considerazioni. Con qualcuno di loro ho tentato un dialogo personale ma mi sono subito accorto che le tematiche sollevate meritano un discorso più ampio.
Così nasce questo mio nuovo articolo.

Maggio 2013

Ciò che di essenziale è emerso dal piccolo dibattito tuttora in corso è la questione di come fare a raggiungere un pubblico più vasto che è strettamente connessa all’altra e ben più importante, dell’innegabile, evidente avversione che i miei testi spesso suscitano.

Certo sono interessanti i suggerimenti tecnici volti ad allargare la cerchia dei lettori. Penso ad esempio alla trasformazione del mio sito in un blog aperto non solo alla discussione ma anche alla collaborazione diretta di chiunque voglia approfondire uno specifico argomento. O all’attenzione maggiore che dovrei riservare alla lunghezza dei testi affinché sia sempre commisurata al mezzo utilizzato per diffonderli. E, ancora, di come possa, il testo stesso, essere strutturato in modo da potersi interconnettere a link o ad altre pagine che siano disponibili ma non obbligate ad un lettore che ama sentirsi libero. Sappiamo che i Social Network impongono brevità e che le stesse “fugaci amicizie” che promuovono non sono di per sé elemento bastante a far circolare messaggi. Non voglio discutere della piacevole leggerezza, per molti versi utilissima e preziosa, con cui queste piattaforme digitali esplicano il loro compito. Né del ruolo evidentemente positivo che rivestono in un processo di democratizzazione del convivere civile. Ma è evidente che non sono il luogo dell’approfondimento. E nemmeno, come spesso erroneamente si crede, dell’immediata diffusione di un messaggio.

Occorre dell’altro.
Occorre prima di tutto scrivere cose che sappiano prendere il lettore. Serve uno stile piacevole, studiato ma insieme leggero. Serve abbandonare il dogmatismo della certezza in cui spesso si rinchiude e rifugia chi pensa cose che suppone necessarie e urgenti a dirsi. Serve saper ascoltare l’altro e farne motivo di crescita.
Ma se un autore è conscio della necessità di rispettare queste esigenze e, anzi, se ne fa vanto, da dove sorgono le critiche che gli vengono fatte quando lo si accusa di essere unilaterale, troppo dogmatico, addirittura inquisitorio e giudicante? Di operare quindi, mentre apparentemente urla amore e pace, una reale inimicizia che fomenta incomprensioni, antipatie e di fatto allontana e costringe al rifiuto anche il lettore ben intenzionato?
Le sensazioni provate da un qualsiasi lettore sono insindacabili in quanto reali. Se le stesse sensazioni accomunano vari lettori e sono le stesse sopra elencate, l’autore è chiamato a risolvere ed attuare i suoi buoni propositi in nuove modalità espressive, più attente a non “annichilire” il lettore (per usare un termine di Roberto). O, come suggerisce Nicola a “mettere insieme rigore intellettuale e flessibilità […] per accogliere l’altro e al contempo scoprire, in un pensiero apparentemente molto diverso, una base comune.”
Ammetto di non aver operato bene in questa direzione.
Leggendo il mio testo sembrerebbe che ambientalisti e progressisti, coloro cioè che non solo sognano ma che combattono con impegno attivo e quotidiano alla realizzazione di un mondo altro, siano quelli più tartassati dalle mie critiche. Ovviamente io mi rivolgo sempre a tutti, come si fa quando si parla di etica, di politica o di filosofia. Ma l’attenzione maggiore è rivolta a coloro che mi sono più vicini essendo già sensibili di per sé alle tematiche che vado trattando. Mi capisce bene Bianca quando, nel suo intervento, esprime disappunto perché la sua scelta di essere vegana non è capita innanzi tutto dalle persone che più le sono prossime e che lei più stima. Questo fatto può provocare rabbia e, come nel mio caso, qualche tono al di sopra delle righe. Ma perché –mi chiedo- uno che ama la natura non dovrebbe rendersi conto prima degli atri che la produzione intensiva di carne (con uno spreco sistematico che è incentivato- su scala globale- da una domanda crescente) è uno degli elementi più devastanti la natura e i suoi cicli fra quelli che l’uomo si è andato inventando negli ultimi due secoli di storia?
E perché un progressista non dovrebbe essere il primo a capire che la produzione intensiva di carne è non solo devastante per i territori (lo capisce bene Maria Teresa quando denuncia ciò che di nefando si sta attuando nel parco del Roccolo “uno degli ultimi polmoni verdi dell’alto Milanese”), ma anche l’esempio vivo di quanto sia necessario un mondo diverso? – È l’esempio emblematico di come oggi ogni vita sia divenuta merce. Se noi trattiamo ciò che è vivo, ciò che è capace di sofferenza, come una cosa di cui disporre in ogni senso, riduciamo noi stessi a cosa, ritrovandosi la nostra natura proprio nel rapporto che sappiamo instaurare con l’altro. Non meravigliamoci poi che lo stesso uomo venga ridotto a oggetto e non solo in senso marxiano di colui che è costretto a vendere la propria forza lavoro, ma addirittura nel senso più tragico di colui che è costretto a vendere un organo, una parte del suo corpo, per poter sopravvivere qualche misero giorno in più.-
E, infine, perché un cattolico o il credente in un Dio che ama sempre e innanzi tutto gli ultimi e chi soffre, non deve essere il primo a capire che la sofferenza non è divisibile? Che non la si può distinguere e classificare in gradi diversi a secondo del colore della pelle, del genere, della cultura? O del fatto che si è cani o vacche, gatti o pesci? Che non v’è distinzione possibile fra la sofferenza mia o tua e quella di qualsiasi altro essere vivente?
Non sto parlando a dei bruti, a degli insensibili. Mi sto rivolgendo alla maggioranza degli uomini che stimo essere ancora in grado di desiderare un mondo in cui le condizioni di vita di tutti siano più degne di quanto lo siano nell’attuale.
Mi limito a rilevare delle contraddizioni che penso, almeno in parte, potrebbero essere ridotte.
È una questione di dati? Di ulteriore informazioni? Occorre quantificare ogni volta quante proteine vegetali sia necessario sprecare per ottenere bassissime quantità di proteine animali? Quanta terra e quanta acqua risparmieremmo se fossimo tutti vegetariani? Quanti gas serra eviteremmo? Quanto inquinamento e quante malattie sfuggiremmo? Quanti uomini in più potremmo alimentare se la produzione intensiva di carne fosse definitivamente abolita?
Dovremmo ancora descrivere le condizioni in cui sono tenuti, e i trattamenti abominevoli a cui debbono sottostare, i circa 60 miliardi di animali che noi uomini macelliamo ogni anno?
Dovremmo ancora colpire duramente la sensibilità con le immagini e i numeri enormi di una strage inimmaginabile a chi, bonariamente, pensa ci sia tempo, ancora molto tempo, per prendere decisioni importanti?
Sì, si dovrà continuare a produrre dati e informazione. Bisognerà continuare la ricerca e denunciare quanto sia dannoso il consumo di proteine animali. E quanto sia incivile e indegno il trattamento che riserviamo a degli esseri vivi. La discrepanza che c’è tra la nostra modesta controinformazione e il pensiero unico dominante diffuso dal potere può essere colmata solo da una insistenza che sappia diffondersi. Ciò che ci dice Stefania a proposito dell’aumentata consapevolezza sia individuale che collettiva, riscontrabile anche nei nostri territori, non può che rallegrare. Ma non è ancora soddisfacente perché quello che davvero occorrerebbe è un repentino cambiamento negli stili di vita di ognuno.
Ed eccoci forse giunti alla ragione principale per cui i miei testi ingenerano fastidio.
Non è la certezza con cui vengono rinfacciati dati, né la perentorietà delle affermazioni che bloccano il lettore. La sua libertà non è mai messa in dubbio e anzi lo si invita spesso, anche evitando ripetizioni, elencazioni noiose di dati, o sottacendo facili riferimenti rintracciabili in Internet, ad una verifica personale. (Gregorio, che non è un lettore facile, mi dice con grande mia soddisfazione, che i miei testi lo invogliano ad una continua ricerca). Nei miei scritti non vi è neppure la brutalità irritante di certe realistiche descrizioni che, toccando cuori e pance molti utilizzano, ma che io evito sempre di proposito.
Quando sostengo che il vegano ha un impatto sulla natura di sette volte inferiore rispetto un normale carnivoro sollevo un problema che non può essere scalfito, né negato. Al massimo potrebbero citarsi altre fonti in grado di diminuire un poco il rapporto, ma la questione non cambierebbe. Quando sostengo che il corpo umano, assomigliando a quello di altri primati vegetariani è, da un punto di vista scientifico, costituzionalmente adatto ad una dieta di frutta, verdura, noci e semi mangiati crudi, affermo una cosa che è contraria al comune sentire, ma difficilmente controvertibile da un punto di vista scientifico. Ogni affermazione che io faccio può essere ulteriormente argomentata ma ogni lettore è chiamato a confutarla. In ogni caso la questione non riguarda mai una disputa astratta. Non si tratta semplicemente di stabilire chi ha più ragione o chi ha più torto.
Il discorso è più complesso e riguarda il principio di responsabilità.
C’è un filone –a dire il vero semplicistico ma non per questo meno vivo- che dall’illuminismo ha attraversato ogni movimento progressista fino ai nostri giorni e che è stato rinvigorito dal marxismo: quello secondo cui le responsabilità non sono mai imputabili ai singoli ma al contesto che, di norma e almeno finora, ha bloccato e condizionato ogni individuo. A giustificazione di questa tesi ci si è sbizzarriti ad inventate forze del male di mostruosa potenza operanti sempre in stretta sinergia. Centri più o meno occulti di potere impersonali ed astratti, il Capitalismo e la Finanza, operanti con stringente, razionale logica, alla costruzione di ogni seppur minimo particolare del grande sistema in cui siamo immersi. Grandi vecchi, multinazionali, oligopoli, Stati e mass media al loro servizio, tutti con il potere di costruire un’opinione pubblica e di orientare ogni decisione. Si è scomodato persino il vecchio Impero, metafora di un antico mostro che, utilizzando i suoi innumerevoli gangli, controllerebbe ancora il tutto.
Ma se la situazione è questa come potrà essere possibile un riscatto? Se ogni individuo è impotente e controllato da meccanismi e circostanze a lui esterne, da dove potrà mai nascere l’atto potente della redenzione?
Marx diede il suo contributo ad un rinnovato umanesimo, teorizzando –e, in parte, idealizzando- un Soggetto (il proletariato), capace di aspirazioni universalistiche e, in quanto tale, meritevole di assumersi la responsabilità di rappresentare l’uomo in generale nell’atto della ribellione e della realizzazione di una società nuova. Ma le difficoltà che sorgono quando ci si chiede come questo Soggetto possa cambiare il mondo in un’immane rivoluzione rimane un mistero. Di quale uomo concreto stiamo parlando? Se egli ha perso tutto, persino la possibilità di decidere della propria vita e del proprio futuro; se ha perso ogni dignità e la sua vita è ridotta ad un susseguirsi di stenti, fatica e fame; se la sua tara principale è l’alienazione e i suoi rapporti con gli altri viventi sono del tutto mercificati essendo mediati dal possesso di denaro, come è possibile che possa poi stringersi agli altri in un progetto solidaristico di così vasta portata?
Le utili ma scarne indicazioni di Marx circa la possibile e necessaria trasformazione della classe in sé in una classe in sé e per sé, appaiono pure transustanziazioni miracolistiche: non a caso delle aberrazioni come leninismo e stalinismo, con la teoria del partito e la prassi di un partito che si fa Stato, con la loro vocazione alla direzione e al controllo verticistico della società tutta, hanno potuto insinuarsi in una nobile teoria, trasformandola e snaturandola proprio nella sua pretesa di farsi prassi.
La questione che pongo è invece risolvibile se, nonostante le circostanze per cui lo schiavo è tenuto schiavo e il povero mantenuto povero siano reali e potenti fino a divenire condizione generale, ci si sappia avvedere dell’esistenza di altre circostanze operanti contraddittoriamente rispetto la realtà dominante. Queste circostanze creano opportunità nuove: per il solo fatto di esistere offrono la possibilità agli individui di operare delle scelte e quindi di uscire dalla passività.
Ma questa visione in cui la speranza prevale, in cui l’uomo si riscopre attivo ed agente, non può che reggersi sulla consapevolezza che la responsabilità di quel che accade, di come cioè il mondo sia costruito e retto, siano individuali, proprio nel senso che toccano ognuno. Quel che noi facciamo nella nostra vita quotidiana costruisce il mondo. Quel che noi facciamo ha il potere di perpetuare o cambiare l’esistente.
Il mio errore di metodo e di stile sta appunto in questo: nel sottovalutare la fatica che richiedo quando pretendo coerenza o richiedo affannosamente che ognuno faccia la cosa giusta. Perché non si tratta più di avere ragione o torto in una disputa che investe massimi sistemi e che nel contempo lasci intatte vecchie consuetudini e consolidati comportamenti. Si tratta invece della proposta di un insieme di conoscenze che intaccano gli stili di vita usuali, che abbisognano di una rivoluzione a partire da sé, che sconvolgono pratiche e tempi della vita di ognuno.
In questa mia pretesa viene troppo evidenziata l’urgenza del cambiamento e il giudizio negativo di tutto ciò che si frappone al cambiamento o lo rallenta, prevale. Non si tratta di arrivare a compromessi: l’urgenza è innegabile e il giudizio negativo rispetto a coloro che scelgono l’indifferenza dinnanzi al dolore permane più forte che mai.
Si tratta semmai di riconoscere ed evidenziare una discrepanza nelle opportunità che di fatto rende i tempi necessari alla scelta molto soggettivi. La questione è, ancora una volta pratica.
Una persona non vincolata dalla necessità di un lavoro, ad esempio un pensionato, ha la possibilità di esperire cambiamenti impensabili ad un dipendente vincolato da molteplici necessità. Uno che, magari, ha il lavoro lontano da casa e che per questo è costretto a mantenersi un auto e che, quasi sicuramente è spinto a correre dalla mattina alla sera perché ha i figli da portare a scuola e da riportare a casa; ha da fare la spesa e prepararsi il cibo; ha da sbrigare incredibili pratiche burocratiche; ha da coltivarsi qualche piccolo e modesto hobby; ha da accudire qualche suo anziano o malato parente. Una persona del genere non trova il tempo per leggere, per documentarsi, non ha fiato per vivere: come potrebbe solo pensare di dovere esperire anche dell’altro?
Ma, per nostra fortuna, non tutto è così. La crisi ha aperto spazi nuovi. Ha ridotto il bisogno di lavoro perché non si sa più cosa produrre. I mercati sono saturi e ciò che prevale è la lotta di tutti contro tutti per diminuire i costi e incrementare le vendite seppure di cose inutili. Gli occupati diminuiscono e in numero sempre minore contribuiscono alla produzione di tutto ciò che necessita. Così come già fecero i contadini, che dal totale della popolazione si ridussero a percentuali di poche unità, pur incrementando la produzione fino a superare ogni anno record precedenti. È la produttività del lavoro che combina questo scherzo, che riesce a saturare i mercati con sempre minor impiego di lavoro.
Nonostante si lavori di meno è attraverso il lavoro produttivo che si può e si riesce ancora a creare quel surplus necessario alla riproduzione sociale, a finanziare cioè tutte le attività umane, anche quelle non direttamente produttive. In un clima del genere le scelte politiche si fanno dirompenti: surplus da distribuire alle armi, o alle scuole e alla salute? Surplus da utilizzare per ripagare i danni che alcuni privati perpetuano sulla natura per incrementare i loro personali profitti, o da utilizzare per appianare ingiustizie, eliminare contrasti, sfamare e dissetare chi ne ha bisogno? Surplus per gli sprechi, per le regalie, i servitori zelanti, gli apologeti, la burocrazia, la politica o per il reddito di cittadinanza che finalmente libererebbe il lavoro e forse indurrebbe a concepire diversamente il lavoro. (Il poco lavoro necessario andrebbe spalmato su tutti e non concentrato su pochi: l’uomo ha diritto alla vita in quanto uomo non in quanto fortunato percettore di salario)
La situazione in cui caliamo i nostri discorsi è questa ed è ben riassunta dal presidente dell’Uruguay Josè Mujica in quello che viene considerato il più bel discorso fatto mai da un Presidente: che dire dell’operaio che, in procinto di conquistare le sei ore lavorative settimanali, decide di lavorare il doppio perché deve fronteggiare il pagamento di prestiti che lo costringono a comperare cose inutili, in uno sperpero consumistico indegno, in un perpetuo rincorrersi in cui costrizione e lavoro aumentano sempre di più?
Sì, la situazione è complessa e non ne usciremo attraverso un’unica via. Ognuno avrà i suoi tempi. Ognuno avrà i suoi modi. Molti non si muoveranno neppure e nella più totale indifferenza si cuciranno addosso un brutto destino che costituirà un problema per tutti. Purtroppo i modelli comportamentali prevalenti sono altri e la rassegnazione rischia di prevalere.
Ma io continuerò a ripetere che ognuno di noi può consapevolmente prendere una decisione. Tra le tante cose che si possono fare può decidere cosa mangiare perché ciò ha delle ricadute immediate ed essenziali oltre che sulla salute e sulla qualità della vita, anche sulle relazioni che gli uomini hanno fra loro. Infatti consapevolezza alimentare significa anche decidere che la povertà, la miseria, la fame, la guerra, la violenza non sono un tragico destino a cui per forza occorre sottostare.
Chi sostiene che non ha il tempo per leggere è perché per sua sfortuna ne ha perso il piacere e non ne ha più voglia.
Inizi col riconoscerlo, poi, se lo vorrà, potrà ripartire un poco alla volta.