Articolo del 29 Maggio 2009
Facciamo il punto.
L’amico Nicola si fa le domande giuste.
Cos’è la democrazia? A cosa serve? E perché parlare di democrazia?
E coglie davvero nel segno quando sostiene che la questione non è solo teorica ma “esperienziale”. Leggerò con attenzione il proseguo del suo articolo.
Da parte mia mi sono sempre occupato di democrazia.
Nel 1980, in Problemi teorici e politici dell’organizzazione di massa in Rosa Luxemburg, misi a confronto il sogno della grande polacca di un comunismo concepito come “democrazia realizzata”, con il pensiero giacobino, manicheo ed elitario di un Lenin sprezzante che teorizzava la necessaria presenza di un partito capace di illuminare come un grande faro le povere masse incolte. La contrapposizione, in ambito marxista, fra democratici e cultori della “dittatura del proletariato” si sviluppò, in un dibattito che è tuttora di grande attualità, nei due decenni a cavallo tra ‘800 e ‘900. Riguardò la dicotomia riforma/rivoluzione e la concezione del partito ma in realtà si stava definendo la forma del nuovo Stato. Non a caso la questione fu praticamente risolta quando, su ordine di Lenin e a rivoluzione russa fatta, il partito bolscevico riuscì ad impossessarsi dell’intero Stato appena nato, fondendosi con esso. Ci riuscì, però – ed è ciò che ne segna il suo tragico destino – solo dopo aver di fatto annullato e represso il potere dei Soviet che erano organizzazioni territoriali spontanee nate già durante la prima rivoluzione russa (1905). Gli esiti mostruosi in cui più tardi sprofondò l’Unione Sovietica totalitaria di Stalin furono la conseguenza di una “forzatura della storia” già tutta dentro il pensiero e l’azione di Lenin. (Vedi, ad esempio, il Che fare?, scritto dal giovane Lenin tra il 1901 e il 1902.)
In quel lontano dibattito apparvero molte questioni affrontate negli ultimi anni da coloro che hanno tentato rifondazioni con l’intento di andare oltre la violenza del cosiddetto secolo breve. (Vedi Marco Revelli, Oltre il novecento, Einaudi 2001) E che hanno avuto come scopo la ridefinizione di quella forma del convivere che è la democrazia.
Io nel frattempo tentavo, modestamente e tra i molti impegni di una quotidianità non proprio adatta al ricercatore, di delineare una genealogia della democrazia. Ciò che è rimasto di quel tentativo ambizioso – essenzialmente lo studio della democrazia in età classica – è contenuto, in forma di appunti, in Democrazia e lavoro nell’antichità classica consultabile nel mio sito.
Poi, nel 2009, dopo qualche anno passato a riordinare annotazioni frutto di numerose letture, pubblicai Luoghi e modi del comune in cui trattai di democrazia, Stato, lavoro e dignità. Il sugo di quel volume sta nello scoprire, racchiusa in qualsiasi universale, l’astrazione che uccide la vita – la volontà generale di roussoniana memoria va a braccetto con il centralismo democratico e, insieme, assimilano in un’unica modalità d’esistenza, esiziale per l’individuo, Stato e partito – e nell’aver dimostrato come siano i modi con cui si configura il lavoro in ogni società, a determinare le relazioni umane e quindi anche la forma che il potere assume, perfino quando esso indossa le sottane della democrazia.
La critica del lavoro, nell’accezione in cui noi lo conosciamo e pratichiamo e la critica dello Stato, sono essenziali per uscire dal pantano in cui versiamo.
Se vogliamo costruire un’altra politica, più che scegliere chi votare o sognare la presa del palazzo, dovremmo riscoprire il valore della nostra quotidianità che è ciò che fonda ogni giorno l’esistente. La consapevolezza ci aiuta a sfuggire pratiche che, distruggendo territori, creano diseguaglianze, ingiustizie, guerre e fame. E a scoprire quelle, dignitose e ormai diffuse in vari angoli del globo che, non accettando la riduzione dell’esistente ad unico, creano di fatto nuovi sentieri e nuovi mondi.
Sono emersi così alcuni percorsi di ricerca su cui lavorare.
1)Dare senso alla democrazia.
Il termine democrazia è strausato ed abusato. Dice Paul Ginsborg (La democrazia che non c’è, Einaudi, 2006) che, già verso la fine del secondo millennio, per la prima volta la democrazia aveva acquisito lo status di maggioranza su scala mondiale. Ma il termine si era caricato nel corso dei secoli di molteplici, contrastanti, significati fino a perdere completamente di senso, tanto che Mario Tronti ebbe a dire che è impossibile salvare questo concetto dalla sua effettiva realizzazione. (Vedi M. Tronti, Per la critica della democrazia politica – saggio contenuto nel volume Guerra e democrazia, Manifestolibri, 2005)
E’ evidente che la democrazia degli antichi è diversa da quella dei moderni (vedi l’ormai classico Moses I. Finley, La democrazia degli antichi e dei moderni, Mondadori 1992) ma è altrettanto vero che anche oggi, a considerare i centoventi paesi che si professano democratici (su un totale di centonovantadue), le differenze risultano abissali. A complicare ulteriormente la questione è la crisi in cui versa il sistema fondato sulla delega – crisi della rappresentanza – negli Stati di più lunga tradizione democratica. E’ più che giustificato, quindi, chiedersi cos’è la democrazia e cosa dovrebbe o potrebbe essere. Io per il momento ho preferito chiamarla al plurale luoghi e modi del comune.
A mio parere, volendo ripartire, occorrerebbe territorializzare la democrazia. E’ questa la direzione verso cui dirigerci.
2)Territorializzare la democrazia significa immaginare una comunità possibile.
Il termine comunità è stato a lungo appannaggio della destra più becera che vi ha costruito sopra luoghi fantastici in cui ripristinare i soliti, vecchi e marcescenti principi della stirpe, del sangue, della religione, dei campanili.
Ma uno studio attento di cosa è stata la comunità ci insegnerebbe che è il principio di proprietà su cui essa reggeva a segnare maggiori distanze con la società globalizzata attuale. Il resto è solo ideologia, credenza, mito. Rousseau disse che il primo che, avendo cintato un terreno, pensò di dire “questo è mio” e trovò delle persone abbastanza stupide da credergli, fu il vero fondatore della società civile. (Origine della disuguaglianza, Feltrinelli, 1979) E Vandana Shiva, nostra grande contemporanea, scrive che il termine recinzione evidenzia il carattere concreto dell’esclusione della comunità dalle sue terre. (Il bene comune della terra, Feltrinelli, 2006)
Penso che il possesso trasformi il posseduto in una cosa di cui il possessore è padrone e signore. E penso che ciò sia non solo ingiusto ma deleterio per il futuro dell’umanità.
A lungo si sono trasformati altri uomini in cose (schiavitù) adducendo le più svariate, fantasiose e stupide motivazioni – nemico, straniero, razza, colore, genere -. Faremo un salto di civiltà quando ci renderemo conto – o quando saremo costretti a capire – che l’asservimento nel quale costringiamo la natura – sia essa animale o vegetale – è la stessa identica stupida cosa. E insieme è ciò che ci impedisce di fondare una relazione nuova fra noi umani, una nuova comunità di individui liberi.
Una nuova comunità è un tutt’uno con il suo territorio. Quest’ultimo è vivente e va rispettato: è fatto di terra, di aria e di acqua ed è in equilibrio con tutte le forme vegetali ed animali che contiene. Non ci sono sovrani come qualche sciocco insegna e neppure nessun re del creato. Tutto è interdipendente. Se il territorio – la natura – muore, muore la vita, anche quella minoritaria di bipedi presuntuosi ed arroganti.
Il rapporto fra uomini e territorio non potrà essere più di proprietà, né privata, né pubblica. Ed è per questo motivo, inserendoci in un dibattito dei nostri giorni, che non bisogna confondere i beni pubblici (di proprietà del pubblico) con i beni comuni. I beni comuni non appartengono a nessuno, nemmeno alla comunità. Essi sono diritti per ogni vivente.
3) Il bene comune ha come presupposto una concezione alta della dignità.
A dirlo semplicemente, la dignità di ognuno non può essere disgiunta dal rispetto per l’altro. Anche per l’altro che non c’è ancora (generazioni future). Anche per l’altro chiamato animale e persino per tutte le altre forme di vita senzienti.
Vivere in modo dignitoso significa fare solo ciò che è possibile sia fatto da tutti i propri simili.
Provate a chiedervi se è possibile generalizzare a tutti gli uomini i nostri consumi. Di quanti globi terrestri avremmo bisogno? Ma se la Terra è una ed è finita, i nostri consumi sono possibili grazie al fatto che moltitudini di uomini consumano meno o non consumano affatto. Vi sembra dignitoso per noi che sperperiamo risorse far finta che la realtà non sia questa? Vi sembra dignitoso lasciare alle generazioni future desolazione e deserto, semplicemente perché noi ci ostiniamo a programmare fantastici progressi illimitati mentre la biosfera in cui siamo immersi ha limiti ben precisi? E’ molto stupido non avvedersi di ciò e non correre subito ai ripari. E’ molto stupido e irrispettoso per l’uomo, costringere una popolazione già messa a dura prova dai livelli di inquinamento attuali, pensare di cementificare 330 ettari di aree protette per dotare Malpensa di una terza pista che non servirà a nessuno. Molti condivideranno, e forse con maggior rabbia, queste mie parole. Ma, al discorso, occorre aggiungere una specificazione.
Tutti sappiamo che si definiscono aree protette territori sottoposti a vincoli da ben precise leggi. Ma in molti preferiscono ignorare un’altra evidente realtà: il potere può farsi e normalmente fa, leggi a suo piacere. Ne dovrebbe conseguire che l’unica vera protezione per un bene comune come il territorio è sempre e solo quella di una comunità vigile. Ma dov’è, in questa nostra devastata landa, la comunità?
Da quanto appena detto deriva che il concetto di bene comune è inattuabile in una società di sudditi. Ha, invece, come presupposto la libertà e la democrazia. La nostra società deve ancora conquistarsi libertà e democrazia. Gli uomini che oggi si credono liberi sono, invece, fragili e deboli. Dipendono troppo da forze che non controllano e che hanno deificato come facevano gli antichi con i tuoni e con i fulmini. I mercati, gli Stati, i soldi, il lavoro ci stanno distruggendo. Stanno divorando il nostro tempo che è bene ricordarlo, è molto breve. Ma non sono nuovi dei e nemmeno fenomeni naturali sottoposti a ferree leggi. Sono nostre invenzioni. Quando l’avremo capito passeremo dall’avere all’essere, ci saremo riappropriati del nostro tempo, della nostra vita.
Nel frattempo mi domando perché tanta indifferenza?
Perché le disuguaglianze, le ingiustizie, la fame, la guerra non sono motivi immediatamente sufficienti a generare un cambiamento del mondo? Ad infiammare e far ribellare le coscienze? E lo sfruttamento cui è soggetto il lavoro e l’alienazione dell’individuo cosalizzato perché non producono un immediato moto di rivolta, capace di mettere a ferro e a fuoco l’intero mondo attuale?
Si stenta a capire come possano le persone accettare la miseria, la violenza e lo sfruttamento che questa struttura sociale ci impone.
Perché questa lenta morte non produce un rifiuto generalizzato, totale, categorico. Perché non conduce di per sé al riscatto, alla conquista della dignità, della libertà, della vita.
“Ma, sant’iddio, cosa è mai questo? Come diremo che si chiama? Di che sventura si tratta? In nome di quale vizio, o meglio di quale orribile vizio, dobbiamo vedere un numero infinito di uomini non obbedire ma servire, non essere governati ma tiranneggiati, al punto da non possedere più ne beni, né genitori, né mogli, né figli, né la loro stessa vita?”
(I libri citati non esauriscono gli argomenti trattati: segnano solo un piccolo sentiero.
L’ultima lunga citazione è tratta da mio Luoghi e modi del comune.
Le tesi contenute nei tre punti sono state affrontate, per lo meno in parte, nelle mie lettere a via Gaggio consultabili in http://vivaviagaggio.wordpress.com/
Ma il discorso è agli inizi e, se gli amici di Via Gaggio me lo consentiranno, continuerà)