Tomas Espedal, citando Bruce Chatwin, “sottolinea che la parola inglese per viaggiare, travel, ha la stessa origine del francese travail, cioè lavorare.” E in effetti per lui camminare è un lavoro a volte duro e faticoso. “Camminare stanca” – dice – “Chi ha letto qualcosa sui viandanti e i vagabondi, sa che la vita del girovago è tosta. Chi è stato per strada per qualche mese, sa che il viaggio a piedi è crudele e distruttivo.” E sa, anche, che il viaggiare in solitudine è una romanticheria. “Da solo non sarei mai riuscito a portare a termine i tragitti più impegnativi. Non si attraversa la Turchia da soli. E se lo si fa , ci si sente vulnerabili, insicuri … Quando si è in due è più facile dormire all’addiaccio, sotto il cielo aperto, di giorno si cammina per conto proprio, da soli ma insieme; si affrontano sconosciuti e cani randagi con sicurezza.”
Niente di romantico, dunque, in questo romanzo.
Ma perché allora, camminare?
Espedal se ne va dove Dylan Tomas aveva la rimessa delle barche in cui scriveva “Il buio è un luogo, la luce è una strada”. Va dove Faust sottoscrisse il contratto con Mefistofele o nella famosa baita ove si rifugiava Heidegger. Ripercorre, passo dopo passo, gli stessi 12 Km che Erik Satie faceva tutti i giorni, spesso ubriaco, spesso prendendo appunti alla luce dei lampioni, dalla stanzetta al numero 22 di rue Cauchy nel paese di Arcueil-Cachan fino al suo bar preferito di Parigi. Cammina con la stessa andatura di Giacometti di cui narra la passione per il movimento e per le prostitute. Cita il romantico Rousseau e il parere che l’ironico Voltaire un giorno gli rivolse “Viene voglia di camminare a quattro zampe quando si legge la sua opera”. E ci racconta di D.H. Lawrence quando parla della perfezione che può essere raggiunta solo decidendo di intraprendere un viaggio per strade aperte. Di Ludwig Wittgenstein e poi di Wordsworth, Coleridge, Rimbaud e di Baudelaire “padre di tutti i flâneurs”.
Per Espedal camminare è un esercizio di vita che mette in movimento l’anima.
Che fa godere delle cose belle – un paesaggio, una donna, la pioggia, una città.
Che offre l’opportunità di sfuggire ad un mondo in cui domina “la stupidità del consumismo. La stupidità dell’ingordigia”. E che appunto per questo, rende poi piacevole anche il ritorno, la casa, un letto caldo in cui riposare, ma solo il tempo strettamente necessario a sedimentare le ricche sensazioni ricevute durante il viaggio. L’attimo dopo si è già pronti a ripartire.