Intervento del 03 Novembre 2008
Per entrare immediatamente in tema dirò innanzi tutto ciò che non farò.
Non tratterò della democrazia da un punto di vista giuridico istituzionale. Cioè non analizzerò i vari modi in cui le relazioni fra i poteri possono esplicarsi. Né vi parlerò delle istituzioni che racchiudono questi poteri e che normalmente vengono elencate da tutti come simboli delle attuali democrazie. Non vi parlerò neppure di dichiarazioni o di carte elencanti diritti universali.
A me stanno a cuore maggiormente i rapporti umani esistenti, quelli reali e concreti che possono ricreare l’esistente ogni giorno che passa sempre uguale a se stesso, con le stesse storture, ineguaglianze, ingiustizie o che, invece, possono osare rompere e sfaldare in una pratica nuova, l’ideologia del pensiero unico tesa a far credere che la società sia immodificabile, che l’esistente e il reale sia sempre razionale, che il mondo in cui si vive sia il migliore possibile. Vorrei parlare di democrazia a partire proprio da queste cose.
Entrerò nel merito affrontando due argomenti che reputo importanti. Il primo riguarda il nome.
I vecchi compagni solitamente snobbano la questione democrazia perché pensano ad essa in termini negativi. E la cosa si può capire vivendo tutti noi in un regime definito democratico che non ci soddisfa e che vorremmo cambiare. Vorrei far notare però che non è così per coloro che, anche sulle tracce di Marx, avendo sempre inteso il socialismo come una democrazia realizzata, guardano alla democrazia da realizzare come al vero obiettivo.
Occorre comunque riconoscere che il nome democrazia oggi significa ben poco. D’altra parte è del tutto normale che un nome si carichi dei significati diversi acquisiti nel corso dei secoli. Ogni parola, per questo motivo, può essere ricca d’ambiguità. Anche altri nomi importanti come cristianesimo o comunismo vivono la stessa sorte. Chi può dire se è più cristiano il papa teologo reazionario di oggi o l’arcivescovo di Milano o padre Ortensio da Spinetoli o, ancora, Alex Zanotelli? Per non parlare, poi, dei molti comunisti esistenti, ognuno con la chiara e convinta opinione di interpretare al meglio ciò che il nome racchiude come significato. Se qualcuno di voi vuole farsi un’idea di ciò che dico, legga le opinioni contrastanti di Marcello Cini e di Alberto Burgio apparse nei giorni scorsi su Liberazione e, più in generale, presti ascolto a ciò che sta accadendo in Rifondazione Comunista.
Quando si parla di democrazia non ci si intende mai bene. Alcuni usano questa parola caricandola di altri significati come quando diventa sinonimo di repubblica. In generale si può tranquillamente sostenere che il termine democrazia ha perso così tanto di senso che oggi ha bisogno di essere accompagnato da un aggettivo che la descrive. Dice Mario Tronti : “Democrazia è un sostantivo che abbisogna sempre di aggettivi qualificativi, e quando un sostantivo per definirsi deve aggettivarsi questo è segno di una mancanza di autonomia concettuale. E infatti oggi si dice democrazia liberale, democrazia socialista, democrazia progressiva; si è detto persino democrazia totalitaria, e così via: tutti elementi che indicano un indebolimento del concetto.”
Io condivido questa opinione ma penso che il concetto racchiuso nel termine democrazia sia sempre stato debole. Esso, infatti, fa riferimento al popolo, termine che non indica nulla di definito, e al potere che racchiudendo in sé una forte carica negativa, è stato, specialmente in questi ultimi anni, cancellato da molti di noi dalla lista di ciò che si dovrebbe desiderare.
Per questi motivi occorrerebbe inventarsi un altro termine ma, dal momento che oggi esso ancora non esiste mi limiterò a proporre di intendere le democrazie come modi e luoghi in cui si concretizza il comune, per tentare poi di ragionare su come attualmente questo comune sia inteso e realizzato.
La maggior parte delle persone sono convinte che il cittadino sia garantito per ciò che concerne la sua libertà, dalla divisione bilanciata dei poteri e dai numerosi aggregati di interessi contrastanti di cui è ricca la società civile. E che la democrazia si regga su queste cose. In realtà quei poteri sono sempre distanti, sempre rinchiusi in tetri palazzi dalle porte blindate ove il cittadino non può entrare e i contrasti fra gruppi di interessi diversi in cui ci si divide, oltre a causare scontri che a volte rasentano la guerra civile, non garantiscono i più deboli, quelli più discriminati, quelli che, per vari motivi, non si aggregano. Che poi sono la maggioranza.
Si è anche normalmente convinti che nelle democrazie vige la libertà perché ognuno è chiamato ad esprimere il proprio parere votando. L’espressione della propria opinione attraverso un voto ogni cinque anni è divenuta così il massimo della libertà tanto che i governi attuali, alla minima protesta, non fanno altro che urlare “Ci avete dato la maggioranza, lasciateci lavorare.” Il voto, per altro, non è prerogativa delle sole democrazie: anche il dittatore molto spesso chiede attraverso un voto il consenso dei propri sudditi. E i cittadini molte volte attraverso il voto riescono a farsi molto male, come quando liberamente scelgono uomini forti che avevano in programma la loro trasformazione in sudditi.
La realtà delle democrazie, al di là dei luoghi comuni o delle questioni teoriche che le hanno sostanziate riempiendo interi scaffali di libri, è fatta sempre di disparità e discriminazioni di classe ma anche di genere, di religione, di razza, accettate tutte come se fossero perfettamente normali. I padri fondatori della patria dei diritti dell’uomo – gli USA – amanti della repubblica e della libertà a tal punto da fare una guerra contro la padrona Gran Bretagna, possedevano nelle loro enormi ville e nelle loro ricche piantagioni un buon numero di schiavi neri che non percepivano in contraddizione con i loro discorsi sulla libertà.
E alle donne, in alcuni stati moderni, occidentali e democratici, non solo è stato riconosciuto il diritto a votare solo una cinquantina d’anni fa ma ancora oggi sono discriminate in molti settori della società, a partire dal lavoro.
I rapporti umani che si sviluppano in simili democrazie sono sotto gli occhi di tutti. E’ evidente che la regola dominante in cui essi sono imprigionati è il verticalismo delle decisioni. In parole povere, il potere della decisione, nelle nostre avanzate democrazie, nonostante il significato che questo nome racchiude, è concentrato sempre in pochissime mani.
Ma come è possibile tenere unite società anche molto complesse e ricche di articolazioni diverse se le cose sono così? Come è possibile che la maggioranza degli uomini accetti di vivere le proprie quotidiane difficoltà, più o meno grandi, delegando ad altri ogni decisione riguardante il proprio futuro? Decisioni che molte volte, specialmente in tempi difficili come i nostri, riguardano direttamente la vita o la morte dei singoli individui? (Pensate soltanto all’intenzione recente di costruire nuove centrali nucleari, nonostante il referendum popolare che ha negato questa possibilità e nonostante il problema ancora irrisolto delle scorie ottenute nelle vecchie centrali smantellate.)
“Ma sant’Iddio, cos’è mai questo? Come diremo che si chiama? Di che sventura si tratta? In nome di quale vizio, o meglio di quale orribile vizio, dobbiamo vedere un numero infinito di uomini non obbedire ma servire, non essere governati ma tiranneggiati, al punto da non possedere più né beni, né genitori, né mogli, né figli, né la loro stessa vita?” diceva Etienne de La Boètie nel 1500 nel suo “Discorso sulla servitù volontaria”.
Io penso che tutte le democrazie finora realizzate abbiano due tratti fondanti e comuni.
Il primo, come abbiamo visto, è quello che abbiamo definito verticalismo delle decisioni, l’altro è la diffusione fatta ad arte di ideologie identitarie.
La democrazia ha bisogno di creare delle omogeneità fittizie e ci riesce in due modi.
Innanzi tutto con l’idelologia quando far credere che siamo tutti uguali o, nel caso in cui le differenze siano troppo marcate, quando convince tutti che godiamo di pari opportunità.
In effetti la democrazia si regge sulla fiducia reciproca che può nascere e svilupparsi solo quando ci si conosce bene, quando si è vincolati da una relazione forte, di parentela o vicinato o meglio ancora di amicizia. Nell’antichità i gruppi di parenti che costituivano i clan si riunivano e prendevano le decisioni riguardanti tutti senza votare ma per acclamazione. La decisione era rafforzata dall’unanimismo, dalla mancanza reale di opposizione.
Noi sappiamo che poi la storia, nel suo svilupparsi, è stata storia di lotte di classi. Quindi possiamo capire come le differenze reali, di genere, di razza, di religione o cultura, ingigantite dal dispiegarsi di interessi economici contrastanti, rompendo quell’unanimismo iniziale, dovevano in qualche modo essere cancellate o nascoste o camuffate, affinché si potesse ugualmente tenere unita la società. Solo questa operazione di obliterazione totale avrebbe consentito e continua a consentire che il potere sia ben stretto nelle solite poche mani.
Sono state utilizzate e piegate ai propri fini, religioni e ideologie potenti per farci abituare, nel corso dei secoli, all’idea di essere tutti uguali. Si è potuto, quindi, colpire a morte, in questa fasulla omogeneità, qualsiasi differenza fra i cittadini e ingigantire quelle con i non cittadini. Noi siamo tutti uguali perché figli di un unico Dio, perché fratelli in Cristo, salvo poi dare a Cesare quel che è di Cesare. Siamo tutti uguali perché apparteniamo alla stessa cultura o alla stessa razza. Siamo tutti uguali perché possiamo votare e votando possiamo eleggere i migliori fra noi che per questo motivo ci garantiranno da ogni male. Abbiamo tutti una stessa patria. Apparteniamo tutti ad una stessa nazione. Siamo tutti cittadini.
Come è ovvio le società che storicamente sono risultate più stabili e forti sono proprio le democrazie, quelle cioè che sono state governate con il consenso dei propri sudditi rinchiusi e protetetti nel recinto della cittadinanza.
Uno dei grandi del ‘900 ci aveva avvisati: “Ogni vera democrazia consiste in questo, che non solo l’eguale è trattato come eguale, ma anche – conseguenza inevitabile – che l’ineguale è trattato come ineguale. Alla democrazia appartiene dunque necessariamente, in primo luogo, ciò che è omogeneo, ma in secondo luogo – all’occorrenza- anche l’eliminazione o l’annientamento di ciò che eterogeneo.” (Carl Schmitt)
Cosa significa? Significa che ogni democrazia deve fabbricarsi un nemico. Non sono quindi solo gli Usa ad inventarsi gli imperi del male. Anche nell’antica democrazia ateniese erano ben chiare le insormontabili differenze fra civili e barbari. Come meravigliarsi oggi se, anche in Europa si innalzano sempre più muri, reali e ideologici, atti a proteggerci dai nuovi barbari?
Le differenze fra noi e gli altri servono ad occultare le differenze che dividono noi.
Tanto più queste si acuiscono, tanto più gli altri diventano nemici da annientare.
Naturalmente si affronta uno scontro reale con il nemico solo quando è necessario. Quando se ne può fare a meno si utilizzano altri strumenti.
L’omologazione degli uomini, l’eliminazione di ogni differenza nella sacra sintesi che la filosofia per molto tempo ha santificato, si ottiene essenzialmente attraverso l’azione dello Stato che è considerato da sempre l’universale per eccellenza. Il luogo in cui ogni contrasto è destinato a trovare la sua sintesi. Lo Stato moderno è il più grande e falso frutto dell’ideologia borghese.
Coloro che possiedono il potere della decisione hanno in lui il loro massimo garante.
La sua azione, essenzialmente economica garantisce, insieme ed oltre ogni ideologia, quella fittizia unità che unisce ogni suo cittadino, ricco o povero che sia.
Esso, se è democratico – cosa che lo rende più potente – garantisce ancor meglio quella distribuzione della ricchezza che pur mantenendo intatte le differenze o addirittura in alcuni casi pur ingigantendole nel proprio interno, rende tangibile la disuguaglianza fra gli ultimi suoi cittadini e coloro che cittadini non sono. Tanto che, ad esempio, ognuno di noi preferisce essere l’ultimo morto di fame italiano piuttosto che un comune africano morto di fame.
Lo Stato garantisce i cuoi confini con l’esercito e protegge così i nostri diritti di cittadini favorendo e garantendo quell’alleanza fra ricchi e poveri che è sempre stata molto nefasta.
Il problema è capire come fa lo stato democratico a garantire ai propri cittadini la ricchezza necessaria a costituire questa tragica unione. E la risposta in breve è con l’appropriazione di una parte della ricchezza che il lavoro produce al proprio interno e con l’appropriazione, il furto, la distruzione della natura ovunque gli capiti. La democrazia ha quindi un costo altissimo. Coloro, specialmente a sinistra, che guardando il Welfare State in termini positivi e che desidererebbero un nuovo Roosevelt o un nuovo Keynes, e in generale uno Stato buono dispensatore di benessere, contrapponendolo all’attuale iniquo stato predone, dovrebbero chiedersi e spiegarci dove quello Stato buono ha preso le sue ricchezze. E cosa sono colonialismo e imperialismo. E ancora perché il terzo e quarto mondo sia così affamato e la natura così distrutta. Un solo dato: l’impronta ecologica che misura la quantità di natura a nostra disposizione ci dice che ogni terrestre ha bisogno, in media e stando agli attuali consumi, 2.2 ettari di terreno. Ciò corrisponde a circa il 20% in più della superficie bioproduttiva disponibile sul pianeta. Ma le medie, come sapete, possono nascondere realtà atroci. Se approfondiamo, infatti, scopriamo che il nord americano ha un’impronta di 9 ettari e un africano poco più di un ettaro.
Il nostro modello di sviluppo, quando non è in crisi, quando ci tratta bene esaudendo ogni nostro desiderio di consumo, quando ci riempie le pance e offusca le menti, è la causa diretta di questa disparità. Questa schifosissima situazione è purtroppo ciò che desidererebbero ripristinare ancora molti di coloro che, anche a sinistra, propongono ricette per superare l’attuale crisi. A chi importa se il nostro alto tenore di vita può sussistere solo perché altri consumano poco o addirittura, consumando niente, muoiono di fame?
Oggi si tende ad accusare di ciò il modo di produzione capitalistico ma si dimentica che questo modo di appropriazione della natura ha sempre trovato nello Stato un supporto e un alleato senza il quale non avrebbe potuto essere così come lo conosciamo. La critica al capitale senza una critica dello Stato è destinata ad esser monca e impotente.
L’unione tragica fra poveri e ricchi è fortemente saldata nello stato democratico che così riesce a preparare guerre calde o fredde, mantenere ineguaglianze al proprio interno acutizzando ed esasperando quelle con gli altri, i barbari, gli incivili. E sempre con l’appoggio dei propri cittadini chiamati a difendere, anche con la vita il proprio stile di vita. Quest’ unione è la causa del razzismo e dell’avversione per lo straniero e per il diverso che oggi dovrebbero spaventare tutti gli uomini di buon senso. Ed è anche il motivo per cui a destra si formano e rafforzano inarrivabili maggioranze.
La splendida Atene garantiva profitti enormi a pochi suoi cittadini ma anche un salario, sebbene misero, a quasi tutti gli altri, derubando, terrorizzando e sterminando chiunque le si opponesse in una area molto vasta del Mediterraneo. Questa fu la sua civiltà.
Oggi le cose sono cambiate. La schiavitù e la servitù medioevali e antiche, hanno ceduto il passo alla moderna libertà. Ma la precondizione che ha reso possibile questo cambiamento è stata e continua ad essere l’accettazione irresponsabile e incondizionata da parte di tutti noi, di una natura privatizzata. Di una natura che, sebbene fonte della vita e di ogni ricchezza, non ci appartiene, né può appartenerci come se ciò fosse stabilito da un decreto divino. Questa credenza, purtroppo diffusa anche a sinistra, ci costringe ad accettare e a perpetuare nel tempo, una nuova forma di dominio. Ci hanno detto che ognuno di noi è libero di vendere solo ciò che gli appartiene e che noi possediamo solo il corpo, la forza lavoro, l’intelligenza, il sapere. Ci hanno fatto credere che è il lavoro a donarci opportunità di riscatto. Ci hanno detto: più si lavora e più si produce, e poi più si produce e più si consuma e di conseguenza più si sta bene. E’ questa l’ideologia su cui si fonda il pensiero unico. E con cui, prima o poi, se vogliamo sopravvivere, occorrerà fare i conti. In realtà quando si fa finta di parlare di lavoro si parla solo di lavoro salariato che è solo una forma storicamente determinata di lavoro: la forma dominante attraverso cui passa attualmente il dominio. E il lavoro salariato non è nient’altro che l’altra faccia del capitalismo. Il capitalismo utilizzando il lavoro salariato sta disgregando la società e distruggendo la natura. Se vogliamo liberarci del capitalismo dobbiamo liberarci anche del lavoro salariato. Perché il lavoro in un modo di produzione capitalistico non si identifica con l’attività del produrre per sé dell’umanità. E il lavoratore, in questo contesto, non è solo colui che produce ciò che serve per la vita ma è anche colui che produce le sue stesse catene. Se vogliamo liberarci dalla schiavitù del lavoro e nello stesso tempo liberare il lavoro, dobbiamo liberarci dai modi del produrre dominanti.
Lo Stato in questo contesto, con i suoi apparati e le sue leggi rimane ancora il massimo garante di una situazione che si vorrebbe conservare in eterno. Ma dietro di lui, il vero motore che crea la società odierna, il modo di accumulazione capitalistico, è oggi in affanno. Esso si ritrova, dopo aver sfruttato e depredato tutto il possibile, a non avere più materiale per i propri denti. E la democrazia, di conseguenza, pur con tutti i limiti che ha sempre avuto, diviene troppo costosa. Lo Stato non può sostenerne il costo: deve salvare banche e industrie e così facendo mostra finalmente il suo vero volto. Si inizia a fomentar paura così la paura cresce e aumentano coloro che invocando sicurezza sono disponibili a perdere in libertà. Si iniziano a sentir rullare i tamburi. Si inizia a parlare di stato d’eccezione.
Dobbiamo svelare questi meccanismi e in fretta: ecco perché abbiamo un bisogno disperato di cultura, ma dobbiamo anche chiarirci che non possiamo dirci comunisti e nemmeno professarci genericamente antisistema se pensiamo ancora al socialismo come al sole dell’avvenire.
Se lasciassimo fare al capitalismo, se gli lasciassimo il tempo, esso supererà qualsiasi crisi, magari con una guerra atroce, magari distruggendoci tutti.
Abbiamo bisogno di un laboratorio in cui sperimentare nuovi stili di vita che sono possibilissimi anche perché altri uomini, in altre parti d’Italia e del mondo li stanno già vivendo normalmente. La scelta fra chi, nelle proprie azioni quotidiane conferma e ricrea l’esistente e chi invece lo trasforma è possibile perché esperienze e saperi, aspirazioni e progetti che prefigurano un’alternativa esistono già. (Ecco i motivi di questa nostra iniziativa, ecco perché continueremo il dibattito parlando di altre economie, di decrescita, di cultura) Abbiamo bisogno di essere anticapitalisti e antisistema non perché ci qualifichiamo o etichettiamo con un nome ma perché dimostriamo praticamente che è possibile vivere in un altro modo.
All’inizio avevo accennato a due questioni importanti di cui finora ho sviluppato solo la prima.
La seconda, in breve, è il chiarimento di un malinteso. Si è sempre concepita la rivoluzione come il momento del cambiamento che è avvenuto attraverso una presa del potere politico.
Nella realtà non esiste mai un momento in cui si cambia ma un processo attraverso cui è possibile cambiare. La Rivoluzione Francese si è realizzata perché la borghesia che esisteva da secoli aveva ormai reso dominanti e vincenti, anche fra la nobiltà, altre modalità del vivere.
Prendere il potere pensando possibile costruire il nuovo dall’alto, significa continuare a non tener conto degli esempi nefasti accaduti nel ‘900. Se volessimo ancora parlare di potere potremmo dire, per capirci, che è il nuovo che porta al potere non il potere che crea il nuovo.
Possiamo costruire un mondo diverso a partire da oggi. Basta sentirci profondamente indignati per ciò che normalmente accade tutti i giorni e poi volerlo.
Possiamo farlo tentando inizialmente di condividere, nuove possibili regole di vita. E pensare, ad esempio, che sia giusto fare solo ciò che è possibile essere generalizzato a tutti. Solo ciò che potrebbero fare anche tutti gli altri uomini. Forse così si ridurrebbe il nostro impatto con la natura. Forse si delineerebbero i contorni di una vita più sobria e più sana. Forse si introdurrebbe una consapevolezza maggiore che è proprio ciò che oggi manca.
Ci sono già tanti uomini che vivono sobriamente perché non dovremmo riuscire anche noi?
A questo proposito vorrei citare Leonardo Sciascia che nel 1981 nell’ Introduzione a Storia della colonna infame di Alessandro Manzoni, diceva di sentirsi più vicino al cattolico che all’illuminista. Intendendo dire che nella vicenda orribile descritta in quello splendido libretto “Pietro Verri guarda all’oscurità dei tempi e alle tremende istituzioni, Manzoni alle responsabilità individuali.” Io condivido questa opinione. E tanto più la ritengo valida oggi dopo che il mondo ha assistito alle barbarie cui può condurre un semplice atto di obbedienza o di sottomissione. Penso che bisognerà, ognuno, assumersi le proprie responsabilità, rispetto ciò che accade in giro per il mondo perché ha ragione John Holooway quando sostiene che “Il capitalismo non esiste perché fu creato cento o duecento anni fa, ma perché noi lo creiamo” ogni giorno che passivamente ne accettiamo stili di vita e regole.
Se provassimo, anche noi, a cambiare tutti almeno un po’ fin da oggi, se provassimo insieme a sperimentare nuove maniere di vita nei nostri luoghi di residenza, nuovi modi nel produrre, nell’acquisto e nel consumo di beni, nuovi modi di utilizzo delle energie; se provassimo anche noi a parlare di ciclo corto per i prodotti agricoli, se si iniziasse anche da noi a reintrodurre la cultura del bene comune, a praticare consapevolmente un’economia del dono e a fare pratiche di autoproduzione, forse perverremmo ad un altro concetto di ricchezza non più basato sul denaro o sulla crescita del Pil; se si riuscisse a creare un laboratorio dove sperimentare almeno qualcuna di queste pratiche, forse riusciremmo anche a sviluppare nuovi rapporti fra noi.
Un po’ più sani e umani di quelli esistenti.
E, forse, farebbe capolino sulla scena anche una realizzata democrazia.
Un esempio
La democrazia nasce e si sviluppa a partire dai territori ma non vi è mai racchiusa perché le tecnologie della comunicazione oggi diffuse consentono legami stretti al di là della distanza fisica. La sua nascita però non sarà automatica. Ci saranno territori che sopravviveranno e altri invece destinati a desertificarsi. Dipende da come noi ci comporteremo. Ma non solo.
Le nostre possibilità dipenderanno in gran parte dall’ampiezza che il movimento che sta già creando il nuovo saprà raggiungere. Il mio singolo comportamento, sebbene virtuoso, ha grandissimo valore per me ma non mi può garantire nessun futuro.
La democrazia, comunque, si costruisce fra persone che si stimano e rispettano non perché della stessa cultura, religione o credo ideologico ma perché i loro comportamenti sono dignitosi verso ogni altro da sé, verso tutti gli uomini e verso gli animali e la natura tutta. Una delle parole su cui imperniare la democrazia dovrebbe essere dignità. Senza questa non si creano rapporti stabili e forti fra le persone. Ma per vivere con dignità occorre acquisire la consapevolezza dell’importanza dei propri atti, delle proprie scelte.
L’impatto sulla natura di ogni individuo è causato essenzialmente da tre fattori principali: il cibo, l’energia usata in casa e i trasporti. Alcuni ricercatori sostengono che il più importante fra i tre sia il cibo, cioè quello che decidiamo di mangiare tutti i giorni.
L’argomento cibo è interessante e complesso perché implica un discorso molto ampio che connette fra loro più questioni: il ciclo corto e quindi il trasporto e la commercializzazione di beni, la valorizzazione dei territori, la riappropriazione di tecniche di produzione ormai dimenticate, l’autoproduzione.
Io vorrei trattare in breve e solo per suggerire qualche spunto, in particolare dell’abitudine di consumare carne, latte e uova.
Quando si inizia a parlare di animali d’allevamento ognuno pensa alle mucche che pascolano liberamente sotto casa sua. Alle decine di animali vari che incontra nelle sue escursioni in montagna. Forse alle centinaia o addirittura migliaia di animali liberi incrociati nei vari territori attraversati. E pensando che la carne italiana sia migliore delle altre, continua rassicurato a mangiarne normalmente.
La questione però non è questa.
Gli autori del libro Come mangiamo, le conseguenze etiche delle nostre scelte alimentari, che io vi consiglio di leggere, si meravigliano degli attivisti americani che lottano per evitare la ricerca scientifica sugli animali, il loro uso per ottenerne pellicce, o il loro utilizzo nei circhi, dimenticando molto spesso le sofferenze di tutti gli altri animali. Negli USA ogni anno vengono uccisi circa 40 milioni di uccelli e mammiferi per la ricerca scientifica o per ottenerne pellicce.
Questa cifra enorme è comparabile con il sacrificio compiuto in soli due giorni nei macelli americani, dove si uccidono circa dieci miliardi di esemplari l’anno.
Le quantità servono a chiarire il problema.
Si può iniziare con l’etica per tentare di far capire come sia inumano trattare degli animali che soffrono, che sono sensibili, che provano sensazioni di affetto, come delle macchine da macello. Si può descrivere il trattamento delle mucche da latte ad esempio: dall’inseminazione artificiale, all’allontanamento dei vitelli appena nati, alla forzata somministrazione di farmaci capaci di aumentare la produzione di latte, alla loro uccisione dopo pochi anni di lavoro forzato.
Ma questo solitamente fa sorridere i più. Non sembra essere un argomento sufficiente a convincere. Non basta.
Allora vi darò qualche ulteriore dato.
1) La metà delle terre fertili a nostra disposizione sul pianeta viene utilizzata per coltivare cereali, semi oleosi e foraggi destinati agli animali da allevamento.
2) La quantità di acqua utilizzata per ogni chilo di alimento è di
500 litri per le patate
900 litri per il frumento
1400 per il mais
1900 per il riso
2000 per la soia
3500 per il pollo
100.000 per il manzo ottenuto in allevamenti intensivi.
Il 70% dell’acqua utilizzata sul pianeta è consumato dalla zootecnia e dall’agricoltura (i cui prodotti servono per la maggior parte a nutrire animali d’allevamento). Quasi la metà dell’acqua consumata negli USA è destinata alle coltivazioni di alimenti per il bestiame.
Questo consumo enorme di terra e acqua per produrre carne è impiegato nel modo peggiore.
Infatti gli animali d’allevamento sono “fabbriche di proteine alla rovescia”.
Per far crescere di un Kg un vitello occorrono 13 Kg di vegetali, di un Kg un bue 11 Kg di vegetali, di un Kg un agnello 24 Kg di vegetali, di un Kg un pollo 3 Kg di vegetali.
Per poter mangiare quindi, tenuto conto degli scarti, un Kg di vitello dobbiamo consumare 18 Kg di vegetali, un Kg di bue 15 Kg di vegetali, un Kg di agnello 33 Kg di vegetali e un Kg di pollo 4 Kg di vegetali.
Un bovino ha un’efficienza di conversione delle proteine animali del 6%: consumando cioè 790 Kg di proteine vegetali, produce meno di 50 Kg di proteine.
Inoltre le calorie di combustibile fossile spese per produrre 1 caloria di proteine dal grano sono 2,2 mentre per i cibi animali ne servono molte di più, in media 25. In particolare però ne servono 40 per la carne bovina, 39 per le uova, 14 per il latte, 14 per la carne di maiale.
Tenuto conto di questi dati, una transizione alle proteine vegetali potrebbero ridurre di tre o quattro volte il fabbisogno di terre e del 30-40% il fabbisogno di acqua.
A tutto questo spreco occorre aggiungere le ripercussioni causate dagli allevamenti animali sull’effetto serra. Da una parte lo spreco di energia e materie prime legato alla coltivazione di mangimi e al loro trasporto, dall’altra parte le deiezioni degli animali fanno sì che il settore della carne sia il secondo maggiore inquinatore dopo quello dell’automobile e che sia responsabile almeno per un quinto dell’inquinamento che causa il riscaldamento del globo terrestre.
Se volessimo davvero pensare ad un mondo altro, costituito da relazioni diverse fra gli uomini, con gli animali, con la natura tutta, dovremmo innanzi tutto pensarlo possibile.
E come pensarlo possibile se non a partire dalle piccole grandi cose che tutti i giorni facciamo? Ecco, è proprio in questa prospettiva, che il laboratorio di cui parliamo, forse potrebbe esserci utile, forse potrebbe esser un’opportunità preziosa per tutti noi.