IL PANE

Thoreau, a Walden, considerò il lievito e il sale inessenziali: per un buon pane, fatto con farina di segale mescolata a farina di granoturco, serve solo acqua per impastare e calore per cuocere, ci dice.
Agli ebrei, che lo chiamano mazzah, il pane azzimo ricorda l’esodo dall’Egitto: perciò si continua a mangiarlo in ricorrenza delle feste pasquali. Così è diventato il pane dei fuggitivi, di coloro che non hanno tempo di panificare lungo il viaggio. Simile è il burgutta eritreo, un pane da viaggio, rotondo e schiacciato, cotto sui sassi roventi.
In realtà la storia del pane azzimo è lunga e appartiene alla cultura di molti popoli.
In Italia, ad esempio, la piadina era usata dai contadini poveri perché, rispetto al pane lievitato e più costoso, riempiva lo stomaco e faceva sentire sazi consumando razioni minori. Il cardinale Anglico de Grimoard, fratello di papa Urbano V, nel 1371 ne registrò la prima ricetta: “Si fa con farina di grano intrisa di acqua e condita con sale. Si può impastare anche con il latte e condire con un po’ di strutto.” Altre focacce diffuse in Italia e, in molte occasioni spacciate per pane azzimo, come ad esempio la tigella emiliana detta anche crescentina, o la torta al testo fatta in Umbria, contengono invece lieviti. Persino la fresa sarda, detto nel nuorese pane carasau e in italiano “carta da musica”, pur essendo sottilissima, è fatta utilizzando lieviti. Ho trovato invece, menzionato come pane azzimo in un prezioso libro di cose sarde, il kokku fatto in Gallura, detto kóttsula púrile nel Logudoro (odierna provincia di Sassari).
In realtà tutte queste schiacciate, sia che contengano lieviti, sia non ne contengano, sembrano derivare dall’antica focaccia azzima di orzo, e più tardi di farro, che i romani cocevano sul testum, una tegola di terracotta. Fra gli antichi, infatti, il pane azzimo, e in molti casi senza sale, predominava. In Mesopotamia e nell’antico Egitto i sacerdoti lo offrivano agli dei e anche loro non potevano toccare e mangiare altro che quello. Era chiamato akal mutqu o yufka. Oggi la yufka turca contiene lieviti e ovviamente sale.
Il pane azzimo è ancora assai diffuso, basti pensare al chapati indiano e alle altre mille varianti rintracciabili dall’Africa ai balcani, dal medio all’estremo Oriente.
In America le cachapas venezuelane fatte con il mais o l’arepa che, con l’arrivo degli europei divenne la famosa tortilla fatta con farina di mais bianco, ne sono esempi famosi.
Le ricette per fare il pane azzimo sono sempre molto simili, pur variando nei tipi di farina o nelle miscele usate. Si può cuocere in teglia, su piastra o in forno. Può essere più o meno sottile e apparire come una galletta o come una più morbida schiacciata. In questo caso, suddivisa in piccole parti, la si usa per prelevare dai piatti e portare alla bocca i vari cibi e intingoli. Riporto una sola ricetta – quella del khubz rubaq diffuso in medio Oriente – tratta da un bellissimo libro. Si setacciano in una terrina e insieme 250 g di farina, mezzo cucchiaino di semi di fieno greco (facoltativo) e mezzo cucchiaino di sale. Si aggiunge lentamente e mescolando un bicchiere di acqua tiepida e si impasta per un quarto d’ora. Si infarina la palla e la si copre con un panno. Si lascia riposare per mezz’ora. Poi la si divide in modo da ottenerne una dozzina di parti che si stendono con un matterello fino a farne sfoglie sottili. Si infarina ogni sfoglia e la si lascia riposare per mezz’ora. Infine si inforna in una teglia non unta per dieci minuti a 250°C.
Il pane azzimo è un composto meno acido del normale pane e più stabile ed energetico. (A parità di peso contiene più calorie).
Nel caso si voglia ottenere un prodotto più morbido e leggero, è consigliabile setacciare più volte la farina prima dell’impasto per ossidarla con l’aria, impastare energicamente per almeno trenta minuti e lasciare l’impasto a riposo per qualche ora (meglio l’intera notte).

Chi volesse usare il lievito sappia che una dose maggiore non fa lievitare meglio. Normalmente, la quantità usata è in relazione ai tempi che vogliamo concedere alla fermentazione. Questi tempi, tenuto conto che i lieviti sono attivi fra i 5/10°C e i 40/50°C variano a seconda della temperatura del locale in cui si panifica e della temperatura dell’acqua. Alcuni suggeriscono di osservare la regola del 70, cifra da ottenersi sommando le temperature dell’ambiente, della farina e dell’acqua – ad esempio 20°C + 20°C + 30°C. Ideale sarebbe avere una temperatura ambiente costante e, per l’acqua, attorno ai 30/35°C.
In queste condizioni, il lievito di birra non deve superare il 3-5% del peso della farina. Sarebbe comunque meglio utilizzarne quantità basse, allungando di conseguenza i tempi della lievitazione. Come abbiamo suggerito altrove, ancor meglio sarebbe utilizzare il lievito acido o pasta madre.
La pasta madre si può preparare in vari modi. Potrebbe essere ottenuta lasciando inacidire per due/tre giorni una pagnottina di farina ed acqua ben impastata. Occorre coprire la scodella in cui si mette a riposare l’impasto con un panno umido per evitare la formazione di croste, mantenendo costante la temperatura attorno ai 20°C.
Nella pasta madre matura, il pH acido – valore 4/4,5 – è il risultato del giusto rapporto fra acido lattico e acido acetico (3:1). Per mantenere questi valori bisogna rinfrescare l’impasto ogni due, tre giorni, prelevandone la parte interna e mescolandola con altra acqua e con altra farina. La sera precedente alla mattina in cui si è deciso di panificare, si riprende la madre con altra farina – a seconda di quanto pane si vorrà fare – e altra acqua, si impasta e si lascia riposare il tutto l’intera notte. La mattina seguente si potrà preparare l’impasto per fare il pane unendo pasta madre e nuova farina in rapporto 1 a 10.
Insolita è l’usanza, citata dal Wagner e anche da Antonino Senes in Curiosità del vocabolario sardo , secondo cui, in alcuni luoghi della Sardegna, si usava preparare l’impasto acido – detto ghimisone – facendo cuocere in forno una sferetta di pasta ottenuta con farina di orzo e acqua su cui erano incisi due tagli a croce. Appena sfornata la “si conservava fra le coltri o fra coperte di lana, perché tenesse a lungo il calore della cottura”. Al momento del bisogno si utilizzava la poltiglia lattiginosa dal forte odore acidulo contenuta nel mezzo della sfera come lievito madre per far lievitare un impasto di farina di orzo, mentre la crosta veniva cotta e condita come fosse pasta.
Al pane così ottenuto, chiamato s’orzatu perché fatto con farina di orzo, si dava forma allungata e, appena cotto veniva piegato in due o in quattro, affinché, utilizzando poco spazio, potesse essere trasportato facilmente: costituiva una provvista di pane per i pastori, in grado di conservarsi in buono stato anche per alcuni mesi.
La buona riuscita della lievitazione è in relazione, oltre che con la temperatura, anche con la durezza e con la quantità dell’acqua utilizzata.
L’acqua di media durezza (dai 20 ai 30°f) è la migliore in quanto l’eccesso o la mancanza di sali – i gradi francesi (°f) misurano la quantità di sali contenuti nell’acqua espressi come se fossero tutti ioni calcio/magnesio) rende l’impasto o troppo duro e poco elastico o sfatto.
La quantità di acqua utilizzata dipende, invece, dalla forza della farina. Il valore di questa forza (W) indica la quantità di proteine, e quindi di glutine, contenute nella farina. Può variare tra i 160/170 W – in tal caso l’acqua assorbita è circa il 50% – fino ai 400W della farina Manitoba che assorbe circa il 90% di acqua. (Con il nome Manitoba si indicano farine di grano tenero, originariamente proveniente dal Canadà ma oggi coltivate ovunque, con forza superiore ai 350W. È utilizzata in genere per rafforzare farine più deboli.) Chi fa il pane in casa utilizza normalmente della farina con una valore medio di 200W che assorbe circa il 60% del suo peso in acqua. Purtroppo questo valore non viene indicato sulla confezione.
Il numero che invece solitamente compare indica il tasso di abburattamento. Questo valore indica la quantità relativa ai Kg di farina prodotta, ogni 100 Kg di grano. Può variare da 00 nel cosiddetto “fiore”, fino a 1 e 2 nel caso di farine più ricche di crusca.
La farina solitamente consigliata per fare il pane è di tipo O.

Il sale da cucina utilizzato (cloruro di sodio), meglio se integrale perché ricco di molti altri componenti, non va mescolato con il lievito. Andrebbe ad inibire il funzionamento delle cellule di lievito variando la loro pressione osmotica fino a provocarne la morte. La pressione osmotica, in questo caso, è data dalla forza esercitata dalle molecole degli ioni contenuti nella soluzione acquosa all’interno della cellula del lievito, contro la membrana cellulare che racchiude il tutto. Se la soluzione in cui il lievito è immerso contiene sale, quest’ultimo estrae l’acqua contenuta nella cellula del lievito facendole superare l’ostacolo della membrana. Il sale, infatti, pur essendo un composto – quando non è anidro – poco igroscopico (assorbe umidità dall’aria solo se quest’ultima ha un valore relativo compreso fra il 100 e il 70%), ha una grande capacità di trattenere molecole di acqua (circa 60/70 volte il suo peso). Grazie a questa sua particolarità il sale si è sempre utilizzato per essiccare e conservare cibi.
Alcuni consigliano di metterlo direttamente nella farina, senza, cioè, scioglierlo prima in acqua. Non ne va, comunque usato, mai più dl 2% del peso della farina. E sarebbe meglio, visto l’elevato consumo che quotidianamente ne facciamo e i rischi per la salute che ci procura, non usarne affatto, o, perlomeno, usarne poco.
In alcuni casi, come in Toscana e in Umbria, si usa consumare un pane insipido, detto per questo motivo, sciocco, che è solitamente molto buono.

I componenti essenziali per fare un buon pane sono, dunque, farina e acqua, con l’aggiunta o meno di lievito e sale.
Il tipo di cereale usato varia con i gusti e le tradizioni locali ed è possibile trovare ottime varietà di pane ottenuto da miscele di due o anche più farine. Alla farina poi si possono aggiungere altri componenti come frutta secca (fichi, noci, uva passa), spezie (cumino e coriandolo), semi, olive e latte. In alcuni casi si aggiunge aceto balsamico che oltre a dare un sapore particolarissimo rende leggermente più acido l’impasto. Un pane particolarmente morbido e saporito è il garfagnino prodotto in Garfagnana con farina di grano duro mescolata a patate precedentemente lessate e schiacciate.
Il pane più insolito che ho trovato è però, ancora una volta, sardo. Si tratta del pan’ispeli, ora non più prodotto. Era ottenuto, senza l’aggiunta di lieviti, da farina di ghiande di leccio, sbucciate e fatte cuocere in acqua bollente. Antonino Senes dice che l’acqua utilizzata per la cottura delle ghiande era una specie di “lisciva” ottenuta facendola passare attraverso argilla, cenere e alcune piante aromatiche. “La cenere valeva, ovviamente, a togliere l’aspro e l’amaro del tannino delle ghiande, e l’argilla dava il glutine necessario a legare l’impasto. E tutti e due codesti ingredienti contribuivano a render più gustoso e digeribile il pan’ispeli.”
Il Wagner, invece, che si rifà ad un testo precedente (Antonio de Cortes, Di una strana varietà di pane che si mangia in Sardegna, in Rivista d’Igiene e di Sanità Pubblica XI -1900-, pp. 76-83) dice che era la poltiglia di ghiande a venir mescolata con l’argilla su lastre di pietra. Le focacce ottenute venivano poi spalmate con grasso di maiale o olio e poi cosparse di cenere per evitare che si attaccassero al piano del forno in cui venivano fatte cuocere.

Agli ingredienti principali appena esaminati, se ne possono aggiungere molti altri, il più delle volte inutili.
Lo zucchero, ad esempio, è da sconsigliare perché inibisce la fermentazione per gli stessi motivi del sale. Nella farina, il fruttosio, il glucosio e il saccarosio sono già presenti in miscela fino all’1%. Questi zuccheri (il saccarosio, disaccaride formato dall’unione delle due molecole dei due monosaccaridi glucosio e fruttosio, è lo zucchero comunemente usato) sono consumati nella fermentazione – occorre circa un’ora – prima che possa iniziare la fermentazione del maltosio (disaccaride formato da due molecole di glucosio), perché, quest’ultimo produce una minore pressione osmotica nelle cellule di lievito rispetto ai primi. Noi sappiamo che a rendere digeribile e buono il pane è la fermentazione – scomposizione – dell’amido in maltosio e del maltosio in glucosio, per cui è questa che dobbiamo favorire.
Penso sia inutile, e per gli stessi motivi, anche l’aggiunta di miele, nonostante contenga numerosi e preziosi oligoelementi e vitamine. Il suo maggior componente è infatti il fruttosio, seguito dal glucosio.
Non aggiungerei neppure maltosio (zucchero di malto) visto che ne è già contenuto parecchio nella farina in seguito alla fermentazione (demolizione) della lunga catena che costituiva la molecola dell’amido. In qualche località si utilizza il malto per dare quel bel colore ambrato ai pani, pennellandone uno strato leggerissimo sulla loro superficie prima di infornare.
Qualcuno usa ungere la superficie dei pani con olio per evitare la formazione di una crosta troppo dura e qualcun altro utilizza olio o altri grassi direttamente nell’impasto. L’aggiunta di olio o di grassi si può evitare. Al massimo e in piccola quantità utilizzerei il solo olio di oliva extravergine. In genere qualsiasi grasso utilizzato, naturalmente in proporzione alle quantità, soffoca la lievitazione, perché le cellule di lievito vengono avvolte da una leggera pellicola impermeabilizzante. Ciò impedisce loro di assorbire l’acqua dall’esterno che invece è necessaria sia a consentire la loro moltiplicazione per gemmazione, sia ad attivare quegli enzimi contenuti nel loro interno agenti della fermentazione.
Per evitare che il pane secchi troppo durante la cottura, è possibile introdurre nel forno un pentolino contenente acqua. Lo si dovrà però estrarre almeno un quarto d’ora prima della fine affinché il pane possa formare una buona crosta.
L’indurimento eccessivo della crosta può essere evitato rallentandone il raffreddamento: basta riporre le pagnotte su una griglia e coprirle con un panno.
Il pane non si ripone mai, da caldo, in ambienti piccoli e chiusi, ad esempio cassettoni o ceste, perché deve potersi liberare completamente dal vapore acqueo contenuto al suo interno. La sua conservazione è proporzionale a una buona cottura e a un’ottima essiccazione.
Nella val d’Otro, nei pressi di Alagna, ai piedi del Monte Rosa, l’antico popolo walzer usava panificare con farina di segale in grandi forni comuni diffusi in ogni frazione della valle, una volta o al massimo due volte all’anno. I numerosi pani ottenuti venivano, in ogni casa, riposti su speciali rastrelliere appese ai soffitti che si possono ancora vedere nel bel rifugio Zar Senni (Alla latteria) della frazione Follu.
Il gestore del rifugio mi ha mostrato il grande e strano coltello che veniva usato per tagliare i pani in dadini da usarsi poi, la sera, nelle minestre. Mi ha assicurato che la lunga conservazione del pane era possibile perché, dopo la buona cottura fatta nel forno comune, quelle rastrelliere garantivano dai topi e consentivano la giusta essiccazione.
I forni di una volta erano muniti di uno spioncino che consentiva di controllare la cottura del pane senza aprire la grande “bocca” . Ciò impediva all’aria fredda dell’esterno di bloccare la cottura “sgonfiando” il pane. Nel mio forno ho fatto semplicemente un foro, a fianco della bocca, in cui ho introdotto un termometro a gambo lungo. La temperatura, ottenuta spargendo uniformemente le braci su tutta la superficie del forno per consentire il suo omogeneo riscaldamento, dopo aver ben pulito, e al momento di infornare, deve essere attorno ai 200°C. Per almeno mezz’ora, dopo aver introdotto i pani, non si deve aprire lo sportello. Un controllo lo si potrà fare solo dopo, infilando in una pagnotta un bastoncino da spiedino. Se, una volta estratto, è asciutto, il pane sarà ben cotto.

Una cosa che ritengo utile e che quindi consiglio a tutti è di impiegare al meglio e a pieno l’energia del forno (Si tratta di ridurre al minimo gli sprechi), producendo oltre al normale pane del buon pane biscottato, chiamato dalle mie parti fresa o frisiddo (per la precisione le frese sono tonde, piatte e forate al centro, mentre i frisiddi hanno la forma di piccoli parallelepipedi).
Prima di fare il pane, solitamente faccio delle buone pizze. Insieme ad esse faccio cuocere dei pani di forma allungata, dal diametro che va da 10 ai 15 centimetri su cui, prima di mettere in forno, faccio delle incisioni circolari ogni 3/4 centimetri con una lama bagnata in modo che non si attacchi all’impasto. Avvenuta la loro parziale cottura le tolgo dal forno con le pizze. Pulisco il forno, inforno il normale pane e, nell’attesa mi gusto le sempre ottime pizze. A fine pasto prendo i filoncini sfornati ormai freddi e li spacco con una leggera pressione delle mani lungo i tagli precedentemente fatti ottenendone delle focaccine rotonde. Dopo aver estratto il pane ormai cotto, inforno le focaccine per la seconda cottura. (Biscotto significa appunto cotto due volte).
Le estraggo il giorno dopo, a forno quasi freddo. Sono dorate e si conservano per alcuni mesi. Si consumano dopo averle bagnate con un filo di acqua.

Vorrei concludere la mia ricerca sul pane con delle personalissime considerazioni.
Il pane è un elemento essenziale non solo della nostra cucina. Appartiene alla nostra cultura e ha avuto sempre a che fare con il simbolico e il sacro.
Penso che, in una società in cui ognuno è portato a credere di poter fare a meno dell’altro, proprio mentre sarebbe necessario riallacciare legami e relazioni capaci di dare un senso alla vita, il pane possa essere l’elemento giusto per tentare di costruire piccole ma dirompenti forme di comunità.
Per fare il pane buono serve un seme buono che si può ottenere dal modesto contadino che ha, ad esempio riscoperto con coraggio l’antico e sorprendente grano monococco (“triticum monococcum” o piccolo farro), perchè si rifiuta di adeguarsi al mercato.
Può darsi che un prodotto genuino sia ottenuto a pochi passi da casa vostra. Informatevi ed unitevi ad altri per gli acquisti: usare prodotti a km zero fa bene a noi, alla terra e anche all’economia. Mentre non fa bene al mercato e alle multinazionali.
Per fare il pane buono serve una farina macinata di fresco. Comperatevi un piccolo mulino da utilizzare in casa e se per voi costa troppo, condividete le spese con un parente, un vicino o un amico. Condividerete anche la farina fresca che farà bene alla salute di tutti.
Per fare il pane buono serve un bel forno a legna. Fatevelo! E’ semplicissimo.
Ma utilizzate anche le energie del vicino di casa, del parente, dell’amico o di chi ci sta. Quando, insieme, farete il pane sarà una festa per tutti. Non produrrete solo pane ma anche relazioni forti e rapporti buoni con gli altri e con il mondo.
Vi assicuro che starete meglio.

La maggior parte delle notizie contenute nei due articoli sul pane, è tratta da Internet.
siti che si occupano di pane, a vari livelli di conoscenza, sono migliaia. Molti di essi ripetono le stesse cose e, qualche volta, anche palesi errori. Non è neppure difficile scontrarsi con affermazioni del tutto contrastanti. Ma, nonostante tutto, Internet rimane un bene comune prezioso a cui attingere. Ovviamente occorre lavorarci molto: mai fermarsi alla prima notizia e poi verificare sempre ogni cosa confrontandosi con tutte le voci che è possibile raccogliere.
Il miei articoli mi hanno impegnato a lungo. Ho utilizzato le mie vecchie e scarne conoscenze di chimico e anche l’aiuto di qualche gentile e antico collega.
Lavorarci mi ha divertito molto e sorpreso più che un gioco.
Alla fine, penso di poter essere soddisfatto del risultato.
Nonostante le possibili sviste o inesattezze, ciò di cui parlo può dar luogo ad un dibattito capace di produrre ulteriori approfondimenti.
Se qualcuno se la sentisse, sarebbe il benvenuto.

BIBLIOGRAFIA

Max Leopold Wagner – La vita rustica della Sardegna riflessa nella lingua –
Pubblicato per la prima volta nel 1921 a Heidelberg e ora riproposto da
ILISSO EDIZIONI – Nuoro
Il libro è leggibile interamente nel sito:
http://www.sardegnacultura.it/documenti/7_4_20060330170854.pdf

Claudio Aita – Viaggio illustrato nella cucina Islamica – Nardini Editore

www.webalice.it/ilquintomoro/antoniosenes/antoniosenes_1-7.html