Amore, vita, passato, presente e futuro. La lotta di Giuseppe contro le ingiustizie del mondo era persa in partenza, lo sapeva bene. Lo sapeva bene ogni volta che le sue spalle si facevano carico dell’ennesimo problema famigliare, ogni volta che nel mondo scoppiava una guerra, ogni volta che la sofferenza di uomini e animali lo investiva come una bufera di rabbia, impotenza e consapevolezza.
Questo era mio padre, una persona consapevole. Una delle poche che io abbia mai conosciuto.
Consapevole persino dei suoi limiti, di quell’incapacità di evitare che la tristezza del mondo divenisse la sua; uno sforzo titanico di empatia che forse lo ha stancato più di quanto potesse reggere.
Eppure la gioia di vivere, la fame di sapere e la curiosità del bambino, mai lo abbandonarono, nemmeno nei momenti più bui; e, per tutta la vita, il suo sguardo e le sue mani si tesero verso l’altro.
Anche nei momenti in cui ti stringo più forte a me
Anche nei momenti in cui ti stringo più forte a me,
quando penso alla fortuna prodiga di doni e al caso
che mi ha fatto nascere fra gente che possiede tutto;
anche quando dovrei star bene ed essere sereno,
e lasciarmi solo stordire dal tuo odore,
rapire dalla tua pelle liscia e bianca,
dalla tua bocca, dai tuoi occhi,
quando le tue mani piccole e mai ferme,
tracciano sulla mia pelle, nel mio cuore,
i segni profondi di un amore eterno;
anche in quei momenti mi sento d’impaccio e confuso.
Mi sento tremante e fragile.
Ma non è la paura della morte che mi intristisce
ché lei è come un’abitudine.
Come una compagna che in fondo mi tiene in vita.
E nemmeno gli anni passati che hanno forse asciugato ogni lacrima
ma non sono riusciti a spegnere l’amore che conservo stretto nel cuore.
È il muso spaurito del cerbiatto cacciato
e il viso rattrappito e coperto di mosche del bimbo affamato,
la sua pancia gonfia e le sue abbandonate e gracili gambine,
è il belato dell’agnello sacrificato ogni giorno alla pasqua del Cristo,
e sono gli occhi della madre impotente a salvare i suoi figli.
È il dolore per la fame, la guerre, la crudeltà
che mi ha da sempre inferto ferite profonde
come fossi io a patire fame, guerra e crudeltà.
È l’offesa fatta ai più deboli,
agli schiavi, ai servi, ai diversi, agli animali,
a tutti coloro che, pur vivi, sono pensati senz’anima
da coloro che, arroganti, non meriterebbero l’averla.
È il dolore che aleggia nell’aria
quando stacchiamo la testa di un fiore,
che mi immalinconisce e mi fa tremare e spaurire.
È il pensiero che forse siamo già morti
quando non sappiamo,
quando non vogliamo sapere,
quando non ci importa di nulla
e chiudiamo gli occhi,
tappiamo le orecchie,
serriamo naso e bocca in uno spasmo rabbioso.
Che mondo sarà
quello che lasceremo ai nostri figli?
Rimarrà la polvere impazzita
Rimarrà la polvere impazzita,
vista in quel minuto raggio di sole
che la penombra squarcia e ferisce
come dirompente novità,
nella stanza ove mai nulla accade.
Dalla mia grande poltrona guardo
granuli indaffarati fuggire qua e là
in un febbrile esiziale lavorio:
si scansano gli uni con gli altri,
fuggono disperati e soli in ghirigori
degni dell’artista moderno e sognante.
Sono male assunti, come le vergini di Licini:
non c’è mai alcun vero che sale alto nel cielo,
è solo apparenza e inganno,
è solo il frutto di fragili menti sorde e cieche
che nel solipsismo soffocano senza avvedersene.
Sempre dilegua in alto, oltre la linea di luce,
la polvere,
e poi si deposita, non vista, nel basso che incrocia.
Ma quel granulo ballerino
che saltella e balletta è più bello,
più scintillante degli altri.
E’ anche più grande – mi sembra più fiero –
e attira il mio sguardo
e lo trattiene, e mi illude e rallegra:
sembra avvicinarsi voglioso
ad una compagna piccina, quasi traslucida,
per poco la sfiora,
forse l’accarezza in un atto d’amore
ma poi veloce e improvviso schizza lontano.
La lascia,
come se la sua fosse una carica opposta.
Preferisce immaginarsi libero
imprigionato nel fascio di luce.
Cosa ti è successo, mi chiedi con occhi sgranati,
irrompendo al mio fianco improvvisa,
cosa ti è successo in questi ultimi dieci anni?
Ti guardo senza capire:
è solo un giorno che sono chiuso qua dentro.
Cosa ti è successo, mio amore dolce?
La tua voce mi colpisce, ipnotica come una cantilena.
Mi dici che non ti guardo da anni
che non ho saputo godere il passare lento del tempo
e che per questo motivo sono spaurito
dai segni profondi che ci ha lasciato sui corpi.
Mi dici che all’improvviso, un giorno d’inverno,
ho volto lo sguardo a cercare i tuoi occhi
ma non sapevo il tuo nome e non avevo parole da dire.
A me è parso passare davvero un solo giorno
da quando bella e felice saltellavi per casa e ti amavo.
Ma tu sei stanca e invecchiata e ormai sicura
di essere giunta alla fine di un ingiusto racconto.
E io ho perso il mio nome, la mia voce, le mie voglie.
Non rivedrò più i volti
Non rivedrò più i volti che un tempo
neppure lontano impregnavano cose:
eran giganti nei loro gracili sogni
e il mondo ridevano, saldi come rocce.
Non udrò più cantare i loro nomi
dai pochi dimentichi amanti rimasti.
Li ha resi tenui fantasmi il tempo fuggito,
il tempo che brucia e perde speranze.
Eppure parla ancora di loro ogni cosa
e duole trovarli ovunque si guardi,
in ogni cosa da loro toccata, in ogni cosa
da loro soltanto guardata.
Bisbigliano ancora parole sconnesse:
sono a noi con unghie avvinghiati.
Non rivedrai più il mio volto.
Sarà fra un breve lasso di tempo
anch’esso sbiadito e confuso
e ti addolorerà pensarmi al passato
ma ancora in ogni cosa presente.
Ti addoloreranno i modi cattivi
e le voci urlate e rabbiose di pochi momenti.
Ci siamo amati di un amore intenso
ma saprai ripensare solo a quei pochi momenti,
e afflitta, ne piangerai a lungo.
A che ne è valso, penserai.
A che ne è valso,
se il nostro tempo sfugge senza alcuna memoria,
se il nostro mondo dura solo il tempo di uno sguardo.
Destini
E noi,
inseguiti e perseguitati dai nostri mostri,
fuggiamo,
correndo perennemente
e affannosamente dietro vacui sogni.
A te
Raccogli pietre ad ogni passo
nutri i tuoi sogni di colore e di forma
sei bella come un fiore in un campo.
Raccogli pietre ad ogni passo
finché il peso non ti ferma.
Come, fuggevole, fa il tempo.
Il quotidiano pensiero
Quando felice cammini
le tue gambe sottili e minute
ti portano oltre l’orizzonte.
E nel tuo continuo fantasticare con l’eternità ti fondi.
Persino il tempo non ti pesa
e il suo trascorrere è lieve e dolce.
Ma a volte, improvvisamente, mentre cammini
ritorni al presente, alle sue costrizioni, ai tuoi affanni
e ti accorgi che lui, severo, ti affianca sempre morte.
E’ bruna, bionda, con gli occhi verdi,
castanoverdi, bruno, grigioverdi.
E’ giovane, vecchia, un’inquietante bambina.
Sogni ad occhi aperti, mentre cammini.
Lei ti fissa con bramosia infinita: ha fame e sete di te.
Un brivido ti coglie. Appena un passeggero brivido.
Non cogli l’abisso finché cammini.
Solo nel fermarti
un pesante dolore in fondo al cuore ti assale
e ti fa ombra, come al calar della sera
quando stanco giungi alla meta.
Autunno
Talvolta
il cupo grigiore di questo cielo lombardo
ti penetra
e la paura del mondo si fa forte.
Allora
non c’è ardore rivoluzionario
o amore di donna
che serva.
Solo il sonno,
voglia di far niente,
rimane.
Come se il vuoto di scavasse attorno e dentro.
Paure
Febbricitante vai,
ansioso come mille malati,
alla ricerca di quella pace che è tua.
E innumerevoli battaglie quotidiane devi superare.
A vivere di sola volontà si finisce col cedere stremato
e pensare al paesino, alla terra e all’indiano pensoso diventa normale.
Alla fine si vuole soltanto odiare, si vuole.
Perché, si capisce, è l’odio, la rabbia
che ti sostengono, di danno forza, ti fanno vincere.
Ma non dura.
Alla fine si può anche scoppiare,
devastante e rovinoso scoppiare,
senza capire o sentire né male né bene,
come la morte che, indifferente, tutto si piglia.
E’ il rischio che si corre ad essere soli.
Desideri
Nel tremore remoto di una foglia
rivivo voglie antiche che, al quietarsi dell’aria,
immobili s’annodano in gola.
Tra vita e morte
Tace la vita, noioso e stanco mito,
l’ovale tuo viso che mai non muta
e gli stimoli spenti di oggetti svaniti.
Come fantasmi,
gli altri,
sfilano nebbiosi.
Passato e presente
In quale immobile abisso d’oceano
verde e di pace e di calma profondo
boccheggiante pesce, sono affogato?
Io non ti ho desiderato mai e poi mai.
Il rosso degli stracci all’aria vivi
come l’impeto dei rossi vulcani
masse di fuoco che colmano i mondi
e i vuoti di urla laceranti, orecchie
rosso battaglia, sanguinanti orecchie
ecco i miei sogni.
E sono nel nulla svaniti?
Ma alla morte preferire gli assurdi
che assurdità assordante quei bagni
tanto acclamati nel rosso del sangue:
è immane alternativa di morte.
E quel giudice è ingiusto e tanto
a condannarmi all’inazione che il corpo
e la mente come pesce imputridisce
quando immobile si bea ai caldi raggi
d’un sole rosso e di pace calmo
nell’azzurra pace di cose morte.
Fantasie di potenza
E’ un sospiro la paura della morte,
sospiro di vampiro nella schiena
che penetra vertebre, cranio e sesso,
che raggela cuori e pietrifica arti,
che infiacchisce corpi forti e sani
ma che dà vita a chi si sa malato.
Ma che ne sa, chi freddo sputa d’ardi
e gracchia di premi e lunghe eternità,
chi si strofina addosso ai simili suoi
e parla d’amore ma non ti guarda
ché è pregno dell’ombra del suo dio morto?
Un uccello che vive una sola alba
vola allegro sopra le nostre teste
e gioca senza ricordare, e muore.
Noi siamo tracotanti e nella vita
non ci curiamo affatto
di quel che realmente facciamo,
ci perdiamo invece
e inutilmente, negli spazi infiniti
per poi, impaurite bestie, tremare
con l’ansia del nulla forte dentro
appena quel sospiro di vampiro
sfiora le nostre esili e bianche schiene.
Noi non lo sappiamo ma siamo già morti.
Indifferenza
Mi ricorda una veglia questo tanfo di morte.
Com’è che voi non ci pensate, non la vedete viva,
non la sognate sempre.
Com’è che voi non vi spaurite?
Sarà che quelle lettere piene d’amore
possono nascere solo buttati in un fosso
vicino un compagno dall’odio massacrato.
Sarà che questo mondo non è più di terra
e non riempie più i cuori con l’arte e l’amore.
Sarà che per vivere bisogna imparare
anche a morire,
ma dei morti massacrati
da silenzi atroci e da un sillabare vuoto
come potrebbero, come, ad ogni nuova alba
potrebbero risorgere amanti della vita,
loro che né pensano, né vedono, né sognano mai.
La morte non può più spaurire chi è morto.
Visioni
Una goccia d’acqua appiccicata al vetro della finestra,
chiara,
ammicca,
fissa.
(che ci fa là con un sole accecante?)
(che vuoi tu, viso deformato in riso?)
Una voglia di morte mi entra dentro.
Veder rimpicciolire la goccia rossa
(Al sole sanguina …
E’ disperante …
Ma no, brilla!)
Geme solo il mio viso che deformato in riso, sparisce.