Paolo Rumiz è bravo. Scrive bene.
“un mattino di settembre presi il sacco e uscii di casa senza voltarmi indietro”, inizia così il racconto di questo viaggio a piedi attraverso l’Istria che ha lo scopo di “incitarvi a mollare gli ormeggi e andare, perché camminare rischiara la mente, conforta il cuore e cura il corpo.”
Il periodare agile di Rumiz e i consigli elargiti con leggerezza rendono la lettura assai piacevole. Capire l’importanza di una buona mappa, capace di “indicare chiaramente ogni dettaglio”, o saper approntare lo zaino, in modo da non lasciare a casa nulla di utile ma nemmeno di portarsi sulle spalle pesi superflui, è cosa essenziale a chi viaggia a piedi. Come lo è il tipo di scarpe da indossare, o la quantità di acqua che è necessario avere sempre con sé. L’alimentazione è importante ma imparare che quel che davvero serve è solo qualche etto di un buon misto di frutta secca, ha del meraviglioso e sorprende molti. “Camminando, dicevo all’inizio, si beve il doppio e si mangia la metà ed è giusto così. Il nostro mondo è popolato di individui grezzi che mangiano troppo e basta una lunga camminata per sentire l’insofferenza per questa dieta.”
I consigli e gli insegnamenti incalzano per tutto il libro: è utile, a chi cammina, conoscere l’ubicazione delle stelle, almeno quelle più importanti, perché oltre ad essere bello di per sé, potrebbe servire a ritrovare la strada. E anche il bastone ha un preciso ruolo: serve ad alleggerire la schiena ma anche ad allontanare cani randagi.
Questi suggerimenti sono utili a tutti e non si capisce perché il volumetto dovrebbe essere invece rivolto a soli lettori giovani come si legge sul risvolto della copertina. Io ho iniziato a camminare da adulto e ho imparato a mie spese come fare lo zaino. Dopo quattro giorni del Camino di Santiago rispedì in Italia via posta un pacco contenente quei quattro chili di troppo che mi stavano rompendo spalle, schiena e piedi. E i consigli di Rumiz mi sarebbero stati preziosi.
A meno che per giovane si intendano tutti coloro che iniziano a camminare, qualunque età anagrafica abbiano. E allora la cosa acquisterebbe di senso.
Ecco forse è proprio così. Il camminare ha molto a che fare con la gioventù. Perché è un atto rivoluzionario che irrompe in una quotidianità fatta di sudditanza ed è il giovane che, più di altri, è ancora capace di disubbidire e di ribellarsi.
“Il viaggio non è fatto per quelli che hanno smesso di meravigliarsi della vita” dice Rumiz. E sembra dirci ragione perché è questo un altro modo per dire che il viaggio è fatto per i giovani. Chi più di un giovane è in grado di compiere quel primo passo tanto difficile? “Quello che si fa per uscire dalla porta” è “il passo più difficile dei viaggiatori”. Un giovane ha meno legami e ha più voglia di costituirne di nuovi. E quindi parte con più facilità.
Ma quei giovani in spirito e dalle molte primavere sulle spalle, sanno a volte essere un po’ più pratici e un po’ meno romantici di un semplice adolescente.
Sanno ad esempio che non è sempre vero che “non sono le gambe che fanno male ma l’anima”, come invece ci dice Rumiz. Ho provato ad attraversare l’intero parco dell’Antola, il secondo giorno di un trekking di tre giorni, sotto l’acqua, la grandine, il vento forte e la neve molle sotto i piedi. La sera, arrivato a Torriglia, ero stremato e dolorante.
E non è neppure vero che “il viaggio non è fatto di luoghi ma di persone”. Ci sono luoghi stupendi che meritano i silenzi assoluti della solitudine e ci parlano come non saprebbero fare molti uomini, e ci sono persone che si vorrebbe non incontrare mai come quando su una roccia, in mezzo ad un Sesia violentissimo e in forte pendenza, tentavo pericolosamente e con gran fatica di arrivare su una qualsiasi delle due sponde. Un uomo vide la scena dall’alto, si accorse della difficoltà in cui mi trovavo e subito pensò bene di andarsene in gran fretta.
Ma queste sono semplici impressioni appena appena discordanti fra un bravo autore, nonché giornalista di successo e un semplice camminatore. Ci sono invece altri punti nel volumetto che mi sembrano sollevare questioni ben più notevoli.
Mi limiterò ad evidenziarne due, per altro molto connesse fra loro.
Rumiz parla dell’“inquietudine migratoria” che coglie chiunque. “Ecco – dice – provate ad ascoltare anche voi questa frenesia che vi ribolle dentro e obbedite al suo impulso. A me accade spesso di sentirla quando il profumo di acacia invade l’aria a primavera o quando tira aria di vendemmia sulle colline intorno alla città.” Detta così sembra molto una gran presa in giro.
Rumiz, che ha imparato a riconoscere questo impulso, appena lo sente dentro di sè parte lasciando la casa e senza guardarsi indietro. Ma gli altri, la gente comune, non sente questo impulso? Ha bisogno di consigli particolari per imparare a riconoscerlo? O è invece costretta ad altre scelte?
“Camminare senza uno scopo pratico è cosa incomprensibile a chi abita la campagna.” Ci dice l’autore senza spiegarci il perché. Forse la spiegazione sta nel dilatarsi del tempo libero che ha consentito a milioni di persone di vagare per sentieri in tempi e in modi che il potere ha voluto elargire immergendoci in uno pseudo benessere fatto di consumo e di spreco.
Ma oggi purtroppo c’è meno spazio per queste regalie: il lavoro è ritornato ad assorbire tutto il tempo dell’uomo e gli spazi per obbedire all’”inquietudine migratoria” sono ridottissimi. Provate a dire ad una casalinga, ad un’operaia che ha anche da badare alla famiglia o ad un operaio che ha appena 30 giorni di ferie all’anno da consumarsi non tutti insieme e magari solo quando il padrone decide di chiudere la fabbrica, di lasciarsi prendere dall’istinto migratorio. Provate a dirlo ad un giovane disoccupato che pur aspetta senza far nulla il momento in cui sarà chiamato ad un lavoro o ad un giovane che il lavoro ce l’ha ma è atipico e perciò non gode di diritti e non sa cosa sono le ferie. Provate a parlar loro di istinto migratorio.
Mi sembra che Cesare Pavese aveva colto la questione in una sua splendida, disincantata, poesia:
Quel ragazzo scomparso al mattino, non torna.
Ha lasciato la pala, ancor fredda, all’uncino
– era l’alba – nessuno ha voluto seguirlo:
si è buttato su certe colline. Un ragazzo
dell’età che comincia a staccare bestemmie,
non sa fare discorsi. Nessuno
ha voluto seguirlo …
[…]
Son le bestie che sentono il tempo, e il ragazzo
l’ha sentito dall’alba. E ci sono dei cani
che finiscono marci in un fosso: la terra
prende tutto. Chi sa se il ragazzo finisce
dentro un fosso, affamato? È scappato nell’alba
senza fare discorsi, con quattro bestemmie,
alto il naso nell’aria.
Ci pensano tutti
aspettando il lavoro, come un gregge svogliato
Paolo Rumiz svolge il suo lavoro molto bene: io sono e sarò sempre un suo lettore ma è proprio il suo lavoro a consentirgli il piacere del camminare. La maggior parte degli altri lavori non consentono lo stesso piacere. Anche perché il camminare di cui stiamo parlando è proprio quello che descrive Rumiz. Non è l’andarsene a spasso qualche domenica pomeriggio e nemmeno qualche giorno durante le ferie estive o invernali che – bontà loro – ti concedono. Camminare è proprio l’atto del seguire quello che Rumiz chiama l’istinto migratorio. Quello del giovane che rischia di finire marcio in un fosso. È davvero un atto rivoluzionario. Rumiz lo sa bene:
“L’uomo che non cammina perde la fantasia, non sogna più, non canta più e non legge più, diventa piatto e sottomesso, e questo è esattamente ciò che il potere vuole da lui, per governarlo senza fatica, derubarlo di ciò che gli ha dato gratuitamente, e bombardarlo di cose perfettamente inutili a pagamento.
Chi cammina, invece, capisce parla con gli altri uomini, li aiuta a reagire e a indignarsi contro questa indecorosa rapina che ci sta impoverendo tutti quanti.
Il semplice fatto di mettere un piede davanti all’altro con eleganza, di questi tempi, è un atto rivoluzionario, una dichiarazione di guerra contro la civiltà maledetta dello spreco.”
Mi si consenta di specificare: oltre a riacquistare la fantasia, a cantare, a leggere, a disubbidire e a non sprecare, occorre essere coscienti che tutte queste cose implicano uno stile di vita diverso dall’attuale. Uno stile di vita in cui la preoccupazione prima non è quella del produrre e quindi del lavoro. Se consumeremo tutti di meno cosa ne sarà della piena occupazione che riempie i sogni di ancora troppa gente? E come potremmo continuare a soddisfare i nostri bisogni? Non è questa la sede per affrontare simili temi, ma le questioni in ballo sono proprio e solo queste.
Un ultima annotazione.
È stupenda la pagina di Rumiz in cui parla dell’Adriatico: “A ovest i pesci depongono le uova, a est si accoppiano, e le correnti aiutano il trasferimento da un lato all’altro. Basterebbe lasciarlo un po’ in pace questo mare troppo pescato, per farne nuovamente una culla di vita.”
Ma lui non passa sera in cui non mangia calamari alla griglia, calamari alla piastra, seppioline e branzini. E poi non rifiuta salsicce e salumi al mattino e una sera mangia addirittura, sebbene di nascosto, una scatoletta di carne, dimenticando che in un’altra bella pagina aveva ricordato Mario Rigoni Stern che, tornando in Italia dal campo di concentramento in cui era stato rinchiuso, aveva attraversato mezza Europa mangiando solo frutta.
Si può chiedere a uno che vuole rivoluzionare il mondo con il camminare di non mangiare carne, di non mangiare pesce, di non contribuire cioè al degrado ambientale che il camminare, con la sua lentezza, con la sua sobrietà, con il suo senso del limite, dovrebbe invece insegnarci a salvaguardare?