Le intenzioni degli autori vengono chiarite già all’inizio del volume ma con una leggerissima contraddizione. Nel caso in cui, essi sostengono, “gli alimenti poco salutari vi piacciono al punto da accettare il rischio di malattia e morte prematura, allora, proprio come nel caso decidiate di fumare o scalare le vette dell’Himalaya, sono principalmente affari vostri. Noi vogliamo concentrarci invece sull’impatto che le vostre scelte alimentari hanno sugli altri.” (pag. 15)
La scelta di occuparsi delle comuni abitudini alimentari dal punto di vista etico non è però neutra, anche se affermarlo può tranquillizzare il lettore e indurlo a leggere tutto il libro.
Coloro che riusciranno ad arrivare al termine di 335 pagine ricche di informazioni e di dati inopinabili, pur avendo sempre assecondato le abitudini alimentari imposte dal mercato e pur non avendo mai collegato l’etica al cibo, quasi sicuramente non potranno evitare il sorgere di qualche domanda e l’imbarazzo di qualche risposta. Quelli fra loro che hanno la fortuna di possedere una sensibilità maggiore giungeranno persino a chiedersi se è giunta l’ora di cambiare radicalmente il proprio stile di vita. I due scrittori lo sanno bene ma, contrariamente a quanto le loro stesse conclusioni fanno presumere, non sono affatto radicali nelle proposte. Forse pensano ci sia ancora tempo per una soluzione graduale. Forse intravvedono una qualche più morbida possibilità, capace di conciliare il sistema vigente, rivisto e riformato, con una morale accettabile. Io penso che tanta prudenza non solo sia inutile ma anche un po’ controproducente perché non esiste più alcun margine per sperare in un addolcimento del sistema.
La gente comune, inoltre, sa benissimo che rompere con abitudini radicate richiede una forza che non tutti sono disposti a spendere: assecondare, da parte nostra, questa diffusa pigrizia non rende nessuno più ragionevole. A costo di passare per un novello predicatore faccio sempre presente il fatto ormai assodato che fumare non riguarda solo chi fuma ma anche chi rischia di ammalarsi perché “fumatore passivo”. E sostenere l’attuale produzione e commercializzazione di cibo acquistando quotidianamente ciò che i mercati sfacciatamente offrono, semplicemente perché è più comodo, più veloce o perché i cibi prodotti “piacciono al punto da accettare il rischio di malattia”, non è cosa che riguardi il solo singolo individuo disposto a fare questa scelta. Riguarda anche me, coloro che la pensano come me, coloro che patiscono la fame per colpa di chi invece se la riempie male tutti i giorni e riguarda anche le future generazioni che non vorranno vivere in un pianeta devastato solo perché una minoranza di uomini, oggi, ha deciso che mangiare bistecche sia irrinunciabile.
Se nulla di ciò che facciamo è “affare nostro” e se, d’altro canto, nessuno può pensare mai – nonostante lo si faccia spesso in mille occasioni diverse – di imporre comportamenti considerati giusti, ciò che rimane da fare è fornire elementi utili ad accrescere la consapevolezza e sperare che il ragionamento e l’esempio induca alla volontaria e individuale decisione di iniziare al più presto una pratica di cambiamento, prima che i limiti naturali del “sistema Terra” non costringano, con i soliti modi “irruenti” usati dalla natura, all’adattamento forzato in un mondo devastato e incapace di nutrirci.
Si tranquillizzi, comunque, il lettore. Questa digressione di filosofia morale è solo mia e serve solo a far da contraltare all’estrema prudenza degli autori.
In questo libro non sarà mai messo di fronte a nessun aut-aut; nessuna imposizione è mai lasciata trapelare e anzi, in più occasioni si giustificano atteggiamenti concilianti e non radicali, come quando si afferma che “un pensiero etico può dimostrarsi sensibile alle circostanze” (321) perché “un po’ di indulgenza non vi trasforma in un mostro immorale.” (323)
Anche i dati vengono – giustamente – trattati e vagliati con attenzione: il più delle volte si preferisce riportare solo ciò che nella letteratura scientifica è meno drastico e quando le discrepanze fra le varie fonti sono esagerate, non vengono taciute o nascoste, ma spiegate in modo esauriente.
Il messaggio conclusivo, nonostante la cautela degli autori, è comunque preciso: non c’è nessuna scelta fatta dal singolo individuo, per ciò che concerne l’alimentazione, che non abbia ripercussione sugli altri. Nelle pagine conclusive del volume viene detto:”Gli statunitensi spendono oltre mille miliardi di dollari all’anno in alimenti. E’ una cifra più che doppia rispetto a quanto spendono per le autovetture e più di due volte superiore rispetto agli investimenti del governo per la difesa. Siamo tutti consumatori di cibo e tutti subiamo in qualche misura le conseguenze dell’inquinamento prodotto dall’industria alimentare. In aggiunta al suo pesante impatto su oltre sei miliardi di esseri umani, essa provoca ogni anno la sofferenza di oltre cinquanta miliardi di animali di terra. Per molti di essi esercita un controllo pressoché totale su ogni aspetto dell’esistenza: li costringe a venire al mondo, li alleva in condizioni innaturali dentro unità di produzione industriale, e poi li conduce al macello. Miliardi di creature marine vengono estratte a forza dal mare per essere uccise … Tramite le sostanze chimiche e gli ormoni scaricati nei fiumi e nel mare e la diffusione di malattie come l’influenza aviaria, l’agricoltura danneggia in maniera indiretta tutte le creature viventi. Tutto ciò accade a causa delle nostre scelte alimentari. Possiamo fare scelte migliori.” (324)
Gli autori seguono vari gruppi di individui con abitudini alimentari diverse. Analizzano i cibi che essi consumano tracciandone la storia fin dagli inizi del loro ciclo di produzione
Si parte dalla “dieta americana standard” per scoprire che l’alimento più presente è il pollo. Tralascio le descrizioni degli ambienti infernali in cui questi animali sono costretti a vivere. Mi limito alla citazione di uno scienziato: ”La produzione industriale di polli è per ampiezza e gravità, l’esempio più grave e sistematico della crudeltà umana nei confronti di un altro animale senziente.” (38) Ciò che conosciamo come pollo è un essere allevato e selezionato per produrre il massimo quantitativo di carne nel minor tempo possibile. E’ un essere che non si muove mai, non solo per le condizioni di sovraffollamento in cui è costretto, ma anche per gli intensi dolori alle articolazioni dovuti al fatto che la loro carne cresce più in fretta delle loro ossa. “Oggi crescono tre volte più in fretta che negli anni ’50 e consumano un terzo del cibo.” (37)
I tacchini non hanno sorte diversa: sono selezionati in modo da sviluppare un petto enorme perché questo è ciò che desidera il consumatore. Loro però non riescono più neppure ad accoppiarsi perciò gli allevatori devono inseminarli artificialmente.
Una condizione ancora peggiore è riservata alle ovaiole: dispongono di minor spazio, hanno il becco cauterizzato da un ago rovente, sono perennemente illuminate in modo da similare le giornante estive e costringerle a fare uova. Dopo un anno la loro produzione cala e allora si costringono alla muta, prima affamandole per due settimane per poi ricominciare a nutrirle affinché la cova riprenda. Dopo un paio di mesi sono pronte per il mattatoio.
La cosa che i mangiatori di uova non sanno è che “la metà delle uova da cui nascono le galline ovaiole producono pulcini maschi. L’industria li considera inutili …” (57) per cui vengono semplicemente buttati via.
Anche per i maiali e le mucche, animali mansueti, intelligenti e capaci di provare dolore, eviterò le accurate descrizioni di come vengono trattati. Riporterò soltanto due particolari.
Le scrofe, come polli e tacchini, sono macchine da carne: i maialini che in natura vengono allattati per nove o più settimane, dopo appena venti giorni sono allontanati con forza dalle madri perché durante l’allattamento non sarebbe possibile una nuova gravidanza. Così facendo la produttività della scrofa viene garantita.
Ma cosa mangiano questi animali per sopravvivere in condizioni così drastiche? Lo scopriamo parlando di vacche.
“L’apparato digerente dei ruminanti si è evoluto per decomporre l’erba. Se la loro alimentazione è povera di fibre alimentari, sviluppano nel rumine acido lattico, che a sua volta produce gas ed è causa di gravi forme di meteorismo cronico che porta l’animale a morire soffocato. Anche gli ascessi al fegato sono frequenti. Sottoporre i bovini a una dieta a base di cereali sarebbe come imporre agli esseri umani una dieta a base di dolciumi. Per il produttore di carne bovina questo non è un problema, a patto che l’animale non cada stecchito prima di essere macellato. Con la somministrazione quotidiana di antibiotici questo rischio è ridotto a proporzioni accettabili e lo si corre volentieri perché aiuta i bovini a raggiungere il peso richiesto dal mercato in soli 14 mesi, invece che i 18-24 che impiegherebbero altrimenti. …
I cereali non sono l’unico alimento bizzarro dato al bestiame. Quando in Europa la sindrome della mucca pazza diventò il tema del momento, il pubblico fu sorpreso di scoprirne l’origine: alle mucche venivano somministrati residui di pecore colpite da una malattia a essa correlata. Ma da quando in qua, si chiese la gente, le mucche mangiano carne? In effetti, sono circa quarant’anni che la dieta bovina viene integrata con i residui della macellazione, perché sono economici e ricchi di proteine. Dopo il disastro della mucca pazza, molti paesi hanno imposto restrizioni severe a questo tipo di mangimi, ma negli USA, al momento della stesura di questo libro, è ancora legale che il cibo destinato ai bovini contenga grasso e sangue di manzo, oltre a gelatina, resti dei piatti dei ristoranti, carne di pollo e maiale, rifiuti avicoli – tra cui materia fecale, uccelli morti, piume di pollo e mangime secco. Nel mangime secco si può trovare la stessa farina di manzo e di ossa che non è permesso somministrare direttamente ai bovini, ma che può essere data ai polli.” (81)
Tra i ritardi di una legislazione incapace di proibire simili mangimi “c’erano le forti preoccupazioni dei produttori di pollame per la proposta di proibire l’utilizzazione dei residui avicoli. Non c’è da stupirsi: ogni anno, circa un milione di tonnellate di residui avicoli vengono smaltiti sotto forma di mangime per bovini.” (82)
Ancora una volta l’interesse economico prevale sulla nostra salute.
Ci sono persone che pur non mangiando carne mangiano uova, latte e formaggi. Per le uova abbiamo già detto.
La produzione intensiva di latte e formaggio è vista, nell’immaginario collettivo, esattamente come ci viene suggerito dalla tranquillizzante pubblicità di latticini. In realtà “la moderna vacca da latte è stata allevata per massimizzare la produzione che negli ultimi cinquant’anni è triplicata. Ciò sottopone il corpo dell’animale ad una forte tensione” (76) che in molti casi richiede l’utilizzo di farmaci i quali, a loro volta, incrementano la produzione di latte.
“Come le donne, anche le vacche non hanno latte fino a quando non partoriscono, e la produzione comincia a diminuire sei mesi dopo il parto. Al raggiungimento dell’età dello sviluppo quindi vengono inseminate artificialmente una volta all’anno. Di solito un vitellino poppa per circa sei mesi, e il legame tra madre e figlio in questo periodo resta molto stretto, ma gli allevamenti sono fatti per vendere il latte, non per darlo ai vitelli. … Dopo quaranta minuti un garzone venne a portarglielo via e la mucca annusò la paglia dove prima si trovava il vitello, prese a muggire e a camminare avanti e indietro. Ore dopo continuava a infilare il naso sotto il cancello della stalla dov’era rinchiusa, muggendo senza sosta. Nel frattempo il suo vitello era stato collocato in una altra zona della fattoria, tremante su un pavimento di cemento. Morì dopo un paio di giorni, e il suo corpo venne gettato nella concimaia.” (76)
“I vitelli di sesso femminile possono essere allevati come sostituti per le vacche “da eliminare”, che vengono spedite al macello. Sebbene l’aspettativa di vita naturale di una vacca sia di circa vent’anni, le mucche da latte si macellano di solito tra i cinque e i sette anni, perché non sono in grado di sostenere le quote artificiosamente alte di produzione. I vitelli maschi che sopravvivono sono spediti alle aste dei bovini a un’età in cui sanno a malapena camminare. … La sorte più comune per questi vitelli maschi è, come già detto, la macellazione immediata oppure quella di essere allevati come vitelli “da latte”. Dal punto di vista dell’animale, è preferibile la macellazione immediata, perché gli risparmia sedici settimane di confinamento in condizioni di semi oscurità, in una gabbia di legno spoglia, troppo stretta per muoversi. … Viene nutrito unicamente con un “sostituto del latte”, un miscuglio liquido di prodotti caseari essiccati, amido, zucchero, antibiotici e altri additivi. Questa dieta è deliberatamente povera di ferro in modo che l’animale sviluppi una forma di anemia subclinica. In questo modo la sua carne, anziché assumere il normale e salutare color rosso di un vitello al pascolo di sedici settimane, si manterrà rosa pallido e avrà il tessuto morbido del “vitello di prima scelta”. (77) Che è esattamente ciò che desidera il consumatore!
La corsa ad ottenere prezzi più bassi non causa solo la riduzione a macchina di poveri animali senzienti e l’etica non può riguardare solo la loro condizione. Gli autori si occupano perciò anche delle condizioni miserevoli in cui sono tenuti gli addetti umani alla produzione di cibo animale – fra loro il turnover raggiunge cifre vicine al 100 per cento annuo – e dello sfruttamento intensivo perpetuato dall’industria della distribuzione ai danni dei propri addetti. Viene esaminato il caso emblematico della Wal-Mart per un evidente motivo: “La bandiera di Wal-Mart svetta in tutti i campi: è il più grande alimentari, il più grande venditore al dettaglio, nonché la società più grande del mondo. … Se Wal-Mart fosse uno stato avrebbe un’economia più forte di quella dell’80 per cento dei paesi del mondo. … Con una forza lavoro totale di 1,6 milioni di persone è il principale datore di lavoro privato degli USA, del Messico e del Canada.” (96) E i risultati sono significativi: ”Oggi, comunque Wal-Mart sostiene di imporre ai propri fornitori standard severi che proibiscono categoricamente l’assunzione di minori di 14 anni. Tuttavia gli standard di Wal-Mart permettono ancora di sfruttare duramente i dipendenti che possono essere costretti a lavorare 72 ore in sei giorni, ovvero 12 ore al giorno per sei giorni di fila, e a lavorare per 14 ore in una singola giornata.”(100)
Nella parte seconda si seguono le abitudini alimentari di alcuni “onnivori coscienziosi”, come vengono definiti dagli autori. “Li abbiamo scelti per i principi etici che guidano le loro scelte alimentari: propensione per le verdure e attenzione al benessere degli animali. Mary Ann e le ragazze mangiano carne e prodotti animali da allevamenti biologici che garantiscono agli animali un trattamento umano.”(105)
Il loro caso dimostra come in un sistema in cui l’industria “continua ad essere azionata dalla domanda congiunta dell’economia e dei consumatori di alimenti a basso prezzo”, i prezzi dei prodotti provenienti da allevamenti più rispettosi della condizione animale non possono salire ulteriormente, per cui anche la condizione animale non potrà mai essere quella ideale. Il costo della carne sarà sempre una sorta di compromesso fra condizione animale e ciò che impone il mercato. Per cui, nonostante le galline siano tenute a terra, non sono comunque all’aperto e la condizione di vacche e maiali, sebbene decisamente migliore di quella in cui sono costretti gli stessi animali negli allevamenti industriali, consiglierebbe al consumatore già selezionato dai prezzi maggiori, di evitare il loro consumo.
La situazione peggiore è riscontrata però quando si esamina la scelta più frequente dell’“onnivoro coscienzioso”: quella di consumare pesce.
Già nelle motivazioni si notano le prime crepe. “Come molti onnivori coscienziosi, Mary Ann e le sue bambine preferiscono i pesci ai mammiferi, perché desiderano nutrirsi di animali che occupano un gradino inferiore nella scala evolutiva.” (140) Ma chi ce lo dice? Certamente noi non siamo abituati a porci il problema altrimenti “non sarebbe possibile che persone sconvolte alla sola idea di soffocare lentamente un cane possano trascorrere un’allegra domenica sedute sulla riva di un fiume con la canna da pesca … “(156)
Ma il problema non è solo questo. Il nostro amore per il pesce ha prodotto una vera e propria guerra contro questi animali. Molte specie sono estinte, altre stanno scomparendo. Nello stesso tempo e man mano che il pescato diminuisce la tecnologia progredisce e non dà scampo nemmeno ai poveri animali che si rifugiano nelle profondità oceaniche. “Secondo alcune stime gli americani mangiano ogni anno 17 miliardi di creature marine” (135). La cosa più vergognosa è il tasso di bycatch raggiunto (animali catturati e uccisi accidentalmente per cui vengono scartati e ributtati via). Nella sola pesca di gamberi è maggiore il peso di bycatch che di gamberi. “Ogni anno circa un quarto del pesce catturato in tutto il mondo è bycatch, ovvero circa 27 milioni di tonnellate, miliardi di creature viventi buttate via.” (135)
La situazione, già di per sé tragica, è peggiorata dagli allevamenti ittici. L’acquacoltura utilizza una quantità di pesce maggiore di quella che produce. – Per produrre una tonnellata di salmone da vendere ai consumatori delle nazioni più ricche sono necessarie infatti tre o quattro tonnellate di pescato economico, che viene trasformato in mangime per i salmoni d’allevamento.” (148) Ciò non fa altro che aumentare la pressione sulle già scarse riserve ittiche esistenti. Inoltre, l’allevamento ittico, produce inquinamento. Oltre agli escrementi – “l’industria del salmone scozzese produce una quantità di escrementi pari a quella di 9 milioni di persone, ovvero circa il doppio della popolazione scozzese.” (148) – purtroppo anche prodotti chimici. “Per ridurre l’incidenza di malattie e parassiti, ai pesci si somministrano anche antibiotici e pesticidi che attraverso le reti vanno a finire in mare.(148)
Per questi motivi ed altri dettagliatamente elencati, secondo gli autori, non ci rimane che evitare del tutto l’acquisto di prodotti ittici.
Un’altra abitudine dell’”onnivoro coscienzioso” è il consumare cibi locali o cibi provenienti dal commercio equo-solidale. Ebbene, secondo gli autori, “il fatto che il cibo locale sia più fresco e abbia un sapore migliore non è una ragione etica per acquistarlo.” (168) e neppure “far circolare i propri soldi nella comunità locale non è un principio etico.” (169) Può essere che il piccolo coltivatore locale, sottoposto a minori controlli, faccia maggior uso di concimi chimici o consumi molta più energia di un prodotto trasportato via treno (ad esempio se utilizza serre per produrre ortaggi o frutta fuori stagione). La cosa migliore sarebbe fare la spesa in bicicletta o con mezzi pubblici e comperare solo prodotti freschi, non lavorati, cresciuti all’aperto e da mangiare crudi o da cuocere con il minimo calore necessario.
I soldi, poi, sarebbe bene farli circolare laddove non ne circolano affatto e acquistare prodotti equo-solidali da paesi poveri. A patto però di essere certi che buona parte del prezzo andrà nelle mani dei piccoli produttori e che i loro prodotti vengano trasportati via mare e mai con i troppo dispendiosi aerei.
Nella terza parte si esaminano le scelte alimentari di alcuni vegani.
Normalmente i vegani mostrano una maggior consapevolezza e tendenzialmente fanno maggior uso di prodotti biologici. Dall’analisi dei loro consumi gli autori concludono che “I vegani sono la dimostrazione vivente che non è necessario sfruttare gli animali per la produzione di cibo”. 319
E’ falso sostenere che l’uomo ha bisogno di assumere alti livelli di proteine. Negli anni settanta del secolo scorso l’apporto proteico consigliato fu ridotto di circa un terzo e l’American Dietetic Association dichiara infatti: ”A condizione che si consumi un’ampia varietà di alimenti vegetali e che venga soddisfatto il fabbisogno energetico, le proteine vegetali sono in grado di soddisfare i fabbisogni nutrizionali. La ricerca indica che un buon assortimento di cibi vegetali mangiati nel corso della giornata è in grado di fornire tutti gli amminoacidi essenziali e assicurare un adeguato apporto di azoto negli adulti sani …” (261)
E’ falso dire che la dieta vegana non sia in grado di apportare una quantità adeguata di ferro: molti vegetali sono ricchi di questo minerale. L’assunzione di vitamina C può comunque facilitarne l’assunzione. L’unico elemento non apportato da una dieta vegana e la vitamina B12 perciò, secondo gli autori, è necessario, e solo in questo caso, l’uso di integratori.
Infine è falso sostenere che l’allevamento industriale è necessario per sfamare una popolazione mondiale sempre più numerosa. Frances Moore Lappé sostenne che l’allevamento industriale di animali è “una fabbrica di proteine alla rovescia” perché consuma più proteine di quante ne produce. Ma è anche una fabbrica che consuma energia più di quanta ne produce. E che consuma quantità enormi di acqua, inquina la terra, i fiumi e i mari e l’aria più di ogni altra coltura vegetale.
Alla fine di un lungo elenco di elementi comprovanti queste affermazioni, gli autori concludono che “risulta ormai chiaro che l’appetito umano per la carne animale rappresenta una spinta centrale che sta dietro a tutte le principali tipologie di danni ambientali che minacciano oggi il futuro umano: deforestazione, erosione, scarsità di acqua potabile, inquinamento dell’aria e dell’acqua, cambiamento climatico, perdita della biodiversità, ingiustizia sociale, destabilizzazione delle comunità e diffusione delle malattie.” (275)
Secondo alcuni, però, l’allevamento industriale ha raggiunto una produttività talmente alta e dei costi talmente bassi per cui sarebbe giustificata la sua esistenza. Questa è la mistificazione più grande. Perché l’industria della carne è riuscita ad ottenere prezzi così bassi solo perché ha potuto, essendogli stato concesso, esternalizzare i suoi costi. Consuma granaglie per i mangimi che hanno prezzi più bassi del loro costo di produzione grazie a incentivi o sovvenzioni governative che l’intera comunità paga; consuma territorio e acqua, inquina aria, fiumi e mari; sottrae terreni alla produzione di cibo per gli uomini per destinarli a cibo per gli animali; produce malattie i cui costi, spalmati sulla comunità, fanno felici le multinazionali chimiche e produttrici di farmaci – già esultanti per il consumo di farmaci per animali e, nonostante la produzione di enormi quantità di letame, di fertilizzanti chimici.
Se l’industria produttrice di carne ripagasse ciò che effettivamente consuma e spreca, il costo della carne sarebbe proibitivo. E allora forse si capirebbe che la produzione di manzo non è sostenibile e che faremmo molto meglio a mangiare noi stessi i cereali anziché darli agli animali.
L’ultima parte del volume prende in esame il dumpster diving.
Gli autori, come al solito, accostano alcuni individui che hanno deciso di vivere seguendo questa pratica di vita che consiste nel raccattare cibo gratis perché – essi sostengono – il problema della nostra società non è la scarsità ma l’abbondanza e lo spreco. Uno di loro dice: “La cosa più bella del dumpster diving è che non entri a far parte del processo consumistico. Persino acquistando cibo biologico si entra nella catena dell’economia di consumo. Frugare nella spazzatura significa davvero spezzare la catena del consumismo.” (303) Alcuni di loro hanno iniziato a chiamarsi fregans, accostando le parola free e vegans.
Singer e Mason sono consci della radicalità di tale scelta. Infatti sostengono che “Il freeganism non significa solo ricerca di cibo gratis. Alla base c’è una riflessione profonda su come poter condurre un’esistenza svincolata dalle priorità imposte dalla società dei consumi e dallo stile di vita conseguente alla loro accettazione. Dal momento che molti legano il proprio status alla ricchezza e a ciò che possono comperare, sono vincolati al lavoro, spesso insoddisfacente, necessario a guadagnarsi il denaro che serve per accrescere la posizione sociale.” 306
La forte denuncia dei fregans contro l’immorale, enorme quantità di sprechi prodotti dal nostro sistema di produzione e vendita di alimenti, è vista dai due autori americani solo come una forte denuncia. La pratica che invece essi consigliano è quella vegana.
E però, in linea con il loro atteggiamento moderato, sostengono che: “Se come probabile, diventare vegani è un passo troppo grande per molti dei milioni di abitanti dei paesi industrializzati che oggi mangiano animali, abbiamo urgente bisogno di un’alternativa ai prodotti da allevamento intensivo. Un’agricoltura ecologicamente sostenibile, attenta al benessere animale e redditizia sul piano economico pare un’alternativa promettente. I veri onnivori coscienziosi devono tuttavia impegnarsi nella ricerca di allevamenti davvero attenti al benessere animale … Una regola morale alla quale attenersi potrebbe essere la seguente: comprare prodotti animali solo se si è fatto visita all’allevamento che li produce …
Immaginiamo però che non siate d’accordo con la scelta di uccidere un animale giovane e in salute per mangiarlo. Questo è l’approccio morale che porta molta gente a diventare vegetariana pur continuando a mangiare uova e latticini. Ma non è possibile produrre galline ovaiole senza produrre anche pulcini maschi e, dal momento che questi ultimi non hanno valore commerciale, vengono uccisi non appena se ne è stabilito il sesso. Per quanto riguarda le galline ovaiole, esse vengono uccise non appena il tasso di deposizione comincia a diminuire. Nell’industria casearia le cose non vanno diversamente: i vitellini maschi si macellano subito o si allevano per produrre carne bianca e le mucche sono trasformate in hamburger assai prima di giungere alla vecchiaia. Dunque chi non è d’accordo con l’uccisione degli animali dovrebbe indirizzarsi ad una dieta vegana, più che a quella vegetariana.
Diventare vegani è un modo sicuro per evitare completamente di partecipare alle violenze sugli animali d’allevamento. I vegani sono la dimostrazione vivente che non è necessario sfruttare gli animali per la produzione di cibo. La dieta vegana inoltre rispetta l’ambiente (sebbene non in percentuale maggiore a una dieta che comprenda carni di animali allevati al pascolo secondo metodi sostenibili su terreni inadatti alla coltivazione) Mai come oggi poi, data la grande disponibilità di alimenti sostitutivi, è stato semplice divenire vegani.” (318/19)
Giunti alla fine del volume rimangono senza risposta alcune domande: è davvero pensabile allevare animali al pascolo secondo metodi sostenibili senza una forte riduzione degli attuali consumi di carne? E, ammesso che gli occidentali siano disponibili a diminuire i propri consumi, dove prenderemo la terra necessaria a sfamare animali che dovranno soddisfare le legittime richieste in forte aumento provenienti da paesi emergenti? E’ giusto rimanersene inerti di fronte al dolore animale e ai disastri ambientali provocati da grossi e piccoli allevamenti? Non sarebbe forse meglio smettere del tutto di cibarsi di carne, di pesce e di ogni derivato animale visto che se ne può fare benissimo a meno e che comunque la loro produzione causa un inaccettabile e immorale spreco di energia?
Non è forse tempo di cessare di pensare la sofferenza animale come all’unico valido elemento che, dal punto di vista etico, imporrebbe il divieto di cibarsi di carne? (L’etica in questo caso è troppo facilmente ridotta ad un optional per coscienze più o meno sensibili o, peggio ancora, a patrimonio di chi, essendo ricco, può consentirsi cibi più costosi e quindi più rispettosi di animali e natura)
Non è forse tempo di mettere al centro dell’etica la questione energetica che è, e sarà sempre più l’elemento capace di consentire la sopravvivenza della specie umana? E non è forse tempo di rigettare per sempre una politica che ci fa sentire impotenti di fronte all’incalzare dei tempi e iniziare una pratica che è già essa stessa un reale e potente cambiamento?
Queste domande possono trovare risposte adeguate guardando altrove e tuttavia sorgono tutte da questo libro. E’ anche per questo motivo che se ne consiglia la lettura.