Un cadavere, un biglietto, un nome.
Si parte da qui, e l’indagine diventa occasione per ripercorrere spaccati di storia lombarda tra la prima industrializzazione, quando nelle campagne i contadini prendevano in casa i primi telai, e le speculazioni edilizie degli anni ’90.
L’attività imprenditoriale dei cotonieri e la ruota degli esposti; il diario di un sacerdote trascinato nell’inferno di un gerarca fascista e l’eroismo notturno del giovane partigiano nella sua postazione; il canto del rumeno sull’impalcatura del cantiere nel quale ha finalmente trovato lavoro.
Alla fine il cerchio si chiude.
Vecchi e nuovi arrivismi. Vecchie e nuove povertà.
Alla ricerca delle radici.
Denominatori comuni il paesaggio lombardo, le miserie e le grandezze umane, l’anelito alla giustizia.
Nella copertina è ripreso uno scorcio dell’antica via Gaggio a Lonate Pozzolo.
E’ un luogo importante, via Gaggio, in cui si respira la nostra storia come se si fosse al cospetto di un monumento, o all’interno di una chiesa. In cui sono evidenti, anche allo sprovveduto, le nostre radici di poveri contadini alle prese con una terra difficile; di commercianti ma anche di contrabbandieri o di briganti col cuore trepidante per la presenza, poco distante, della dogana austro-ungarica; di sudditi dominati con ferro e col fuoco da fascisti e tedeschi che qui avevano costruito piste per i loro aerei e accampamenti per i loro soldati.
A passare per questa antica via l’animo vibra, come se si entrasse in sintonia con coloro che per secoli vi sono transitati e allora il nostro camminare può diventare un esercizio per la mente: il ricordare modi e stili di vita diversi insegna che un altro mondo è possibile.
Poi ci si rasserena e tranquillizza per la bellezza e l’armonia che vi regnano, per i colori e i profumi e il cinguettio che ci accompagna.
E, infine, non si capisce più perché tutto ciò debba sparire.
Sarà forse che, in quest’epoca dura, le comunità sono chiamate ad uno sforzo nuovo di vita e civiltà. E che solo quelle che sapranno dire no a tutto ciò che è deciso altrove forse riusciranno a dare un barlume di speranza ai propri figli.
In anteprima
PREFAZIONE di Roberto Morandi
“Dolce è il sonno di chi serve,
mangi egli poco o molto; ma l’abbondanza
che appartiene al ricco
non gli permette di dormire”
(Qoelet, 5:11)
Nelle prime righe di questo romanzo c’è un nome, Crespi, che a chi abiti nell’industriosa e opulenta Lombardia evoca subito una storia imprenditoriale e sociale emergente e al contempo esemplare, quella dei cotonieri partiti dalla plaga intorno a Busto Arsizio, arrivati al punto di costruire nella bergamasca una piccola città che portava il loro nome, destinati a perdere quasi tutto nell’arco di tre sole generazioni, dopo un’affannosa e famelica ricerca del profitto. C’è in quel nome una scheggia della storia di un territorio – quello dell’alta pianura verso il Ticino, povera per secoli e poi, d’improvviso, ricchissima – e di genti che di certo non hanno ispirato molti romanzieri: è questo il pezzo di mondo che fa da sfondo e insieme da soggetto vero al libro di Giuseppe Laino.
Una storia polifonica che nasce come un noir e in cui vicende distanti nel tempo e nello spazio si ricompongono e ritrovano senso.
Per ognuna delle parti e dei capitoli, l’autore sceglie un linguaggio e uno stile che si rifà ai tempi narrati e alle voci che lo interpretarono o, ancora, a suggestioni e parallelismi: dalla trattazione positivista al lirismo di Pavese (cui si rifà il titolo del libro), alla prosa sofferta di Manzoni giansenista e della “Storia della colonna infame”, citata esplicitamente nei nomi dei personaggi.
Nella vicenda ambientata in un paesaggio – anche umano e storico ben preciso, il lettore curioso andrà alla ricerca del confine tra storia immaginata e Storia, tra vero e verisimile, per usare la categoria manzoniana.
Ad una prima lettura sarà difficile distinguere tra storia e invenzione laddove si parla del Re di Busto Arsizio o di un tale Peter Pan soldato austroungarico nella prima guerra mondiale, erede di straccioni friulani e veneti che emigravano non verso le Americhe, ma verso quella Romania che oggi appare a molti italiani come l’ultima frontiera povera dell’Europa dell’Est. E ancora ci si chiederà dov’è il confine tra vero e falso nella vicenda tetra che si dipana negli anni del ventennio fascista.
La ricostruzione storica e ambientale colpisce per la precisione che scende al livello dei dettagli. Il libro di Giuseppe Laino è tutto animato infatti non solo dalla descrizione ma anche dall’analisi dei luoghi che fanno da sfondo e che lo stesso autore vive con amore. Amore per quella terra di brughiera tratteggiata – come in un disegno in bianco e nero – a tratti sottili e fin nei più piccoli particolari, quasi a fare memoria di qualcosa che si deve preservare non solo nella sua fisicità (i monumenti, gli edifici), ma anche nel ricordo e nella conoscenza minuta, visto che oggi ambiente, natura, tracce del passato sono minacciate da una crescita senza regole – che quando esistono sono puramente formali- tutta orientata alla sola accumulazione di ricchezza economica.
Questa tensione narrativa e al contempo militante è esemplificata dal brano – non lungo e quasi incidentale nella complessa architettura del romanzo – che ha come sfondo l’area del Gaggio e la brughiera tra Ferno e Lonate Pozzolo: un pezzo di territorio dell’alta pianura sacrificato via via sempre più allo sviluppo di Malpensa, l’aeroporto che oggi progetta ancora di allargarsi, recintando e distruggendo in gran parte, appunto, la zona di via Gaggio, rendendo privato e inaccessibile ciò che per secoli è stato comune. La citazione forse non è casuale, tanto più che è ripresa – in questa edizione- anche dall’immagine di copertina.
Ma c’è un passaggio preciso, in quel brano, che colpisce: la breve nota sull’antica dogana austroungarica, testimonianza tutta concreta di un pezzo di storia, di quando il Ticino era confine tra Stati diversi, prima dell’Unità. Il ricordo dell’antico fabbricato dagli intonaci scrostati e dall’aspetto severo si accompagna alla critica di un recupero, avvenuto negli anni Novanta, così poco attento e poco attinente alla sobrietà militaresca del vecchio casermaggio austriaco, “deturpato definitivamente da orribili vetrate che [gli donano] l’aspetto di un moderno supermercato”. Ecco, in quella nota sembra esserci un richiamo ad un affetto profondo per una terra violata e per la sua dolorosa vicenda.
Quella terra è, indiscutibilmente, l’alta pianura e la brughiera, ma potrebbe essere anche altrove: la smania di potere travolge spesso natura e storia e gli stessi uomini.
In questa attenzione non scontata ai dettagli, il legame con il territorio, con il passato, con le radici che emerge è profondamente diverso da quello sbandierato dalle formazioni politiche comunitariste e identitarie come la Lega Nord (e i suoi omologhi diffusi a livello europeo), che si trincerano dietro pochi canoni e simboli per poi sacrificare altri brani di coscienza collettiva, di cultura materiale alle inderogabili esigenze del progresso e del capitalismo, di fronte a cui nulla è sacro.
E, nella ricchezza di queste pagine, la coscienza di una terra e di una storia comune non è dunque una rivendicazione ad escludere, ma passa invece attraverso la riscoperta di piccole storie – nella grande Storia – che porteranno, lentamente e con una agnizione finale, a riannodare i fili di una identità assai meno lineare di quella che i populisti xenofobi amano rappresentare semplificando, trovando purtroppo ben vasta accoglienza tra le genti di questa landa (e non solo di questa).
Ma è forse proprio in questa tragica inadeguatezza delle masse di uomini che la vicenda narrata – fatta di emigrazioni opposte, di eroismi e abiezioni contrapposte le une alle altre, di egoismi borghesi e nascoste riscosse della coscienza – diviene specchio e declinazione particolare di una vicenda universale, ancora imperscrutabile e senza senso compiuto, più che mai irrisolta nel nostro tempo, in cui le utopie e i desideri di liberazione dell’uomo sono abbandonati e dileggiati.
Le storie di ieri e quelle di oggi sembrano tutte condurre all’eterna domanda umana sulla giustizia che aleggia nella Bibbia e in particolare in Giobbe e in Qoelet: “Perché il giusto perisce e l’empio trionfa?”
Si aggiunge di seguito l’intervista dell’Associazione Viva Via Gaggio, in occasione della pubblicazione del libro Dove son nato non lo so.