In questi giorni ho letto La montagna incantata di Thomas Mann.
Il romanzo inizia con la visita di Giovanni Castorp al cugino Gioachino, ricoverato in un sanatorio fra le belle cime alpine di Davos, in Svizzera. E subito, nelle primissime pagine, il saluto inquietante rivolto dal dottor Krokowski al giovane, sano villeggiante attira la mia attenzione: ”Bé! buonanotte, signor Castorp: dorma tranquillo nella piena coscienza della sua intatta salute!” (pag. 22 – vol. I) Perché mi invita a riflettere su quanto fallace sia la nostra cara, affidabile, buona coscienza.
La scoperta della malattia, da lì a qualche giorno, costringe Giovanni a protrarre per anni una permanenza che doveva durare solo tre settimane: è l’epoca che prelude lo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Ma nel sanatorio, frequentato da ricchi cosmopoliti nessuno se ne avvede. Il tempo trascorre in un altro tempo, scandito da altri ritmi, da altri riti, da altre preoccupazioni.
Non v’è l’assillo del lavoro che costringerebbe ad un necessario fare. La normale quotidianità dell’uomo qualunque che vive la sua vita nelle lontane valli, con i suoi mille problemi, gli affanni e i desideri che lo avvolgono e travolgono, è del tutto assente.
Ciò consente un’altra vita in cui prevale la cura dell’anima fra passeggiate in scorci alpini incontaminati, incontri piacevoli, giochi di società dopo cene sontuose, discussioni appassionate o anche frivole e leggere com’è sempre l’aria a quell’altezza.
I personaggi incontrati sono tanti, ma a prevalere sono due che in discussioni accese in un titanico scontro rivelano due visioni del mondo diverse e avverse, accomunate dal solo desiderio di educare Giovanni alla filosofia e alla riflessione. Sembra che i due discutano solo per questo motivo.
Settembrini, italiano, figlio dell’illuminismo e “delle magnifiche sorti e progressive”, ex carbonaro e massone, fautore dei diritti universali dell’uomo, fedele ai sacri principi dell’amore e della pace, non può che cozzare in un fantasmagorico scintillare verbale ogni qual volta incontra Naphta, dotto gesuita di origini ebraiche, nichilista cattivo, inflessibile e coerente.
La presa di coscienza di Giovanni Castorp prosegue incessante per tutte le quasi ottocento pagine del romanzo. Non solo i due pedagoghi gli forniscono spunti di riflessione che lo costringono ad un continuo ripensamento, ma ogni circostanza da lui vissuta è rivolta all’approfondimento in una sorte di crescente inesauribile curiosità.
Lo interessa la natura: la botanica e la fisica, sollecitato dai colori, dai fiori, dalle erbe e dagli arbusti che incontra nelle sue frequenti passeggiate; il cosmo che ammira la notte, quando avvolto in calde coperte di lana di cammello, se ne sta sul comodo lettino posizionato all’aperto, sul terrazzo della camera; il clima con il suo incessante variare capace di anticipare l’inverno nel cuore dell’estate o di produrre giornate estive e primaverili nel bel mezzo dell’inverno.
Lo interessa l’uomo la cui struttura fisica interiore gli viene rivelata da quelle particolari foto radiografiche fatte in ospedale. E la cui struttura psichica può indagare grazie alle relazioni che instaura con gli atri pazienti.
Si procura libri scientifici che studia con passione, nulla tralasciando.
Indaga i sentimenti che emergono nel suo giovane cuore quando trova l’amore nell’affascinante madame Chauchat; quando sfida la consuetudine imposta in quel rifugio di non parlare mai di morte, andando invece a trovare tutti i moribondi che non frequentavano più i luoghi comuni e che erano soliti passare l’ultima attesa nelle loro camerette soli o in compagnia di qualche familiare; quando sfida la sorte allontanandosi con gli sci appena acquistati sul dorso innevato della montagna fino a perdersi.
Finché, a poco a poco, si fa luce la vera causa di questo suo incessante bisogno di consapevolezza. Certo importante è il reddito che gli consente di vivere di rendita ma ciò di per sé non sarebbe bastato. Il suo destino era infatti di andarsene a lavorare come ingegnere in un cantiere navale della sua città. E se non avesse scoperto la malattia mai avrebbe preso altra scelta. In lui la malattia è accettata, quasi voluta, perché si avvede che lo costringe in una dimensione in cui il tempo può riempirsi di altri valori, di altri desideri. È il manifestarsi della patologia che costringe al confronto con i propri limiti che costringe a rivolgere la propria attenzione e sensibilità verso l’interno, verso sé stessi, nell’auscultare profondo di ogni movimento dell’animo come pure di ogni segnale inviato al cervello da ognuna delle numerosissime terminazioni nervose periferiche.
Questa attenzione per sé modifica radicalmente la percezione che si ha del fluire del tempo il cui significato viene dibattuto fin nelle primissime pagine del romanzo.
Qui non vi è spazio per la fretta che costringe a sorvolare veloci su ogni cosa. La superficialità è bandita. Prevale un attento soffermarsi sulle esperienze quotidiane che facilita l’appropriarsi di ogni attimo di vita in cui la relazione con l’altro è parte fondamentale.
In quest’ottica si capisce come la parola possa divenire la vera grande sovrana dello stupendo mondo incantato racchiuso nel romanzo. Il bel parlare, elegante e rispettoso nella convinzione che “La parola, anche la più contraddittoria accosta sempre l’uno all’altro … ma il silenzio fa il vuoto” (pag. 193 – Vol. II)
Purtroppo l’affascinante universo che viene descritto – è fatto vivere con suprema maestria anche al lettore – sta morendo come i malati suoi protagonisti.
La fine è annunciata dal duello cruento con cui Settembrini e Naphta pongono termine ai loro scontri verbali: i loro mondi sono inconciliabili metafore di una realtà tragica incombente.
Il crollo definitivo è nel vagare senza metà di un gruppo di soldati impegnati nella Grande Guerra, descritti con pathos nelle ultime pagine del romanzo.